Who’s Pink?

“Sitting here the whole night, I realized the diversity of the music. Everyone has a different approach to the music but we have all touched people, I hope, with our music. And that’s what we want to do.”

Richard Wright, 1996

Acceptance speech, Induction of Pink Floyd in Rock and Roll Hall of Fame.

Vogliamo affrontare, alla maniera di Floydheart, uno dei temi più cari e controversi per la comunità floydiana. Il tema è quello che ciclicamente infiamma il dibattito pubblico tra i fan dei Pink Floyd e che si può sinteticamente rappresentare con una domanda: chi è Pink?

Chi è (o cosa è) che rappresenta in maniera iconica e completa i Pink Floyd? Quale elemento, laddove assente, fa scomparire il concetto stesso di Pink Floyd?

Richiamando un verso di una delle loro canzoni (Have A Cigar), quello che potrebbe essere quasi definito un meme concettuale martella la mente dei floydiani puntualmente:

Oh by the way, which one’s Pink?

Sì perché il floydiano medio proprio non ce la fa a sopravvivere senza intrattenersi di tanto in tanto con i suoi pari in discussioni infinite su chi o cosa siano veramente i Pink Floyd, su quali siano i meriti sul campo di questo o quell’altro membro, di quale sia il periodo migliore e quale il peggiore. Eccetera eccetera.

Quello che nel pezzo del 1975 era la rappresentazione plastica del cinismo dell’industria discografica che annienta la creatività e l’anima stessa dell’artista, anteponendo simulacri pubblicitari e di marketing alla genuina spontaneità, assurge spesso oggi a elemento scatenante di furiose battaglie tra chi – a turno – reputa l’uno o l’altro tra Roger, David – e con qualche venatura di nostalgica ipocrisia anche Rick – la vera essenza del gruppo.

Non staremo qui a fare disamine musico-legali che durano il tempo di un tweet o di un distratto click su un’esca succulenta di un titolo fatto ad arte da giornali di settore o tuttologi esperti anche di Pink Floyd. Lo lasciamo fare agli innumerevoli analisti molto più bravi di noi sia per background che per dialettica. Noi preferiamo invece fare disamine emozionali e filosofiche, quelle che ci piace pensare durino nel tempo.

Fedeli a questo principio, o almeno provandoci, crediamo innanzitutto che per poter affermare che qualcuno o qualcosa sia la parte essenziale di un tutto, bisogni primariamente definire il tutto. Questo “tutto” è l’entità “Pink Floyd”.

Ebbene che cos’è questa entità?

Adottando un approccio puramente empirico, si potrebbe definirla come il gruppo di persone che, sotto un nome collettivo, hanno collaborato per un certo periodo di tempo alla stesura di musiche e testi e che ha generato di conseguenza dei concreti prodotti musicali.

Da questo punto di vista, non potremmo che affermare che l’entità in questione sia nata nel 1967 (o giù di lì) e abbia smesso di esistere nel 1968, quando Syd Barrett ha abbandonato questo gruppo di persone. O meglio, che dal 1968 un altro gruppo di persone, largamente simile a quello precedente, abbia implicitamente formato un’altra entità con il medesimo nome. Lo stesso discorso sarebbe applicabile agli avvenimenti del 1979, quando Rick lasciò la band, o al 1985 quando lo fece Roger. E di nuovo nel 1987, e ancora nel 2005 e nel 2008 seguendo eventi ben noti della storia floydiana. Secondo questo approccio quindi non esisterebbe di per sé e ab initio un’unica entità “Pink Floyd” ma una sequenza di entità concrete diverse, largamente simili tra loro dal punto di vista sostanziale, e che collettivamente hanno dato vita a quella meta-entità storica che la nostra psiche collettiva e trans-individuale in qualche maniera materializza sotto il concetto “Pink Floyd”. Da questo punto di vista, dovrebbe ai più risultare subito illusorio, oltre che contraddittorio logicamente, eleggere una delle entità della sequenza come quella “vera” poiché tale affermazione sarebbe la negazione stessa della costruzione della meta-entità storica “Pink Floyd” come astrazione di una sequenza di entità concrete distinte.

La nostra inconfutabile natura di limitati e fallaci individui materiali, tuttavia, ha bisogno di render(ci) comprensibile l’astratto, di farci toccare e rendere persistente l’effimerità del pensiero, di perpetrare la fugace emozione dei sensi, di rendere terreno il metafisico, e non si accontenta di fredde definizioni filosofiche per quanto esse possano sembrare convincenti alla nostra mente razionale. Come conseguenza, la meta-entità storica, unica vera realtà oggettivabile/oggettiva ma incomprensibile perché trascendente per sua stessa definizione, deve essere resa concreta, rappresentabile, esemplificabile. Ed è proprio entrando in questa dimensione individualista che si cominciano a contare i tentativi di pragmatizzazione della meta-entità “Pink Floyd” attraverso l’elezione di uno o più concetti parziali a rappresentanti assoluti di essa, e per traslazione rappresentanti dei “veri” Pink Floyd. Tentativi che si possono classificare grossolanamente nelle seguenti categorie:

1) l’elezione di una specifica entità concreta (ad esempio la line-up classica Gilmour-Mason-Waters-Wright);

2) l’elezione di un particolare periodo storico comprendente una o più entità concrete (ad esempio gli anni ’70 o “l’era Waters”);

3) l’elezione di uno o più specifici prodotti di una o più specifiche entità concrete (ad esempio The Dark Side of The Moon e Wish You Were Here);

4) l’elezione di uno specifico membro di una o più entità concrete (ad esempio Roger Waters o Syd Barrett);

5) combinazioni varie di 1)-4) (ad esempio il David Gilmour di Time o il Rick Wright di “Shine on”).

Ciascuna di queste pragmatizzazioni soddisfa una determinata vista, parziale, della meta-entità storica che il più delle volte corrisponde ad un percorso individuale di approccio ad essa, particolarmente caro perché legato a spinte emozionali, sociali o intellettuali.

La domanda fondamentale a questo punto è: esiste tra le infinite possibili una pragmatizzazione più rappresentativa delle altre, vale a dire maggiormente in grado di catturare in sé l’essenza della meta-entità storica “Pink Floyd” e quindi in grado di dirci chi sono i “veri” Pink Floyd?

Anche qui, crediamo che ogni tentativo di risposta che aspiri a rimanere valido nel tempo debba essere basato su un approccio per quanto possibile rigoroso e scevro da polarizzazioni di parte e simpatie del momento più che altro viscerali.

Partiamo col dire che ciascuna pragmatizzazione ha una base di sostegno (e quindi una validità intrinseca, empirica) rappresentata esclusivamente dagli individui che la eleggono. Per principio, quindi, nessuna di esse può essere considerata dominante in quanto sostenuta da solo una parte degli individui coinvolti. Ragionamenti imperniati sulla numerosità/prevalenza come metro della rappresentatività della pragmatizzazione sono non solo impraticabili ma anche fallaci poiché o basati sulla riduzione di criteri analogici complessi – quelli che ciascuno di noi utilizza implicitamente per definire appunto le pragmatizzazioni – a criteri numerico/logici semplicistici, o – ancor peggio – basate su mere opinioni. Fallacia in cui continuano a cadere – ahimè – alcuni tra gli stessi membri dei Floyd, le cui opinioni su quale sia la pragmatizzazione da eleggere hanno da un punto di vista filosofico la stessa valenza di quelle espresse dall’ultimo dei fan.

La possibilità residua, lungo questo percorso, è quindi quella di considerare la collettività delle pragmatizzazioni possibili come rappresentante della meta-entità storica e limitarsi a considerare allo stesso tempo ciascuna di esse e tutte come la miglior spiegazione pragmatica disponibile della sua fenomenologia (ovvero quella spiegazione che dovremmo fornire ad un interlocutore ingenuo). Sotto questa luce, si annichiliscono istantaneamente tutti i tentativi – più o meno autorevoli, sofisticati o maldestri a seconda se proposti dai protagonisti diretti, da menti esperte e illuminate o da guru autodefiniti – di eleggerne una particolare. Dobbiamo perciò “accontentarci” di accettare qualsiasi pragmatizzazione come esempio di concretizzazione valida, sebbene da individui liberi potremo annoverarci tra i membri sostenitori dell’una o dell’altra, allo stesso tempo rispettando silenziosamente le opinioni altrui.

Esiste una possibilità alternativa, meno deludente di questo appiattimento e allo stesso tempo più nobile dell’accozzaglia di discussioni inutili attorno alla domanda fintamente cardinale che si cela dietro il meme “Which one’s Pink?” ?

Secondo Floydheart la possibilità alternativa esiste ed è quella di negare completamente le pragmatizzazioni in favore della una costante tensione a-razionale (quindi priva di razionalità ma al tempo stesso non irrazionale) verso la comprensione totale e diretta (non mediata) della meta-entità storica dei Pink Floyd nel sua fenomenologia più essenziale: la musica stessa. Tensione che non può che sostanziarsi attraverso l’unico canale possibile tra la nostra mondanità di individui e la trascendenza: quello delle emozioni dell’ascolto.

E’ infatti solo attraverso l’ascolto muto, attraverso il pensiero intimo, che possiamo raggiungere una dimensione in cui il codice emozionale rimane l’unico strumento disponibile per comprendere l’immensa e non verbalizzabile grandiosità di ciascuna e tutte le manifestazioni della meta-entità storica “Pink Floyd”. In questa dimensione prende forma e abita la nostra stessa psiche collettiva di floydiani e quando ci ritroviamo in essa ci fondiamo con le anime generatrici di questo eterno capolavoro che è la musica dei Pink Floyd.

In questo empireo dei sensi, spesso provato e rappresentato su queste pagine da Floydheart, risulta chiaro e cristallino come gli stessi membri dei Floyd (tutti e ciascuno di essi!) non sono altro che strumenti generatori della meta-entità “Pink Floyd”, in un processo che la trasforma dalla sua natura inizialmente storica ad elemento astorico e irriducibile ad alcuna delle nostre categorie di linguaggio.

Nell’empireo trascendente dell’ascolto, alle pragmatizzazioni razionali e di convenzione linguistica si sostituiscono così quelle emozionali, alle rappresentazioni oggettivo-formali quelle onirico-sensoriali, in perfetta armonia con quell’atto creativo che – sfuggendo agli stessi attori – ha dato vita verso la fine degli anni ’60 ad una delle principali gioie della nostra esistenza.

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