The Division Bell

Gli anni che ci separano dalla pubblicazione di The Division Bell sono sufficienti a consentire su di esso un lucido sguardo complessivo: l’album è la quiete dopo la tempesta degli anni ’80, fatta di scissioni, rivincite e battaglie legali, forti della propulsione indotta dal successo e dalla giovane età, notoriamente irruenta. È in definitiva una buona occasione per fare il punto su ciò che è cambiato e su ciò che non cambia mai. Considerando che il calco floydiano è sempre il medesimo, è la materia liquida in cui esso viene intinto ad essere cambiata.

Se l’album A Momentary Lapse Of Reason di 7 anni prima è stato il lavoro della rivincita e la prova di banco dei nuovi Floyd orfani del loro paroliere, The Division Bell è quello della raggiunta pace interiore, dei rimpianti e del bilancio di una vita artistica da brividi, oltre che della maturità umana divenuta saggezza, quasi paterna. Con una vena artistica non più piegata ad additare comportamenti umani e questioni sociali disdicevoli, ma volta a suggerire vie d’uscita e a costruire consigli, l’album tesse con il filo dell’anima trame umanamente fitte.

E così capita che l’album sia pervaso prevalentemente da musiche vellutate, linee melodiche dolci, pentagrammi struggenti, a descrivere viaggi introspettivi che richiamano la calma interiore di un bilancio esistenziale, senza cercare alcuno scontro, ma rammaricandosi delle parole non dette, o di quanto non fatto, al momento opportuno.

Ci troviamo lontani anni luce dai toni inquisitori di Animals, The Wall e The Final Cut e dalle lame affilate di Welcome to The Machine e Have a Cigar, come se le accuse mosse, appartenenti ormai al passato, avessero indotto i Pink Floyd ad un approccio diverso; ed è proprio in questo aspetto chiave che The Division Bell costituisce una virata a 180° rispetto ai citati lavori, un vero e proprio testacoda concettuale.

In questo senso i concetti espressi in musica e parole da questo lavoro suonano anche come una presa di distanza dalla soverchiante vena watersiana, che se tanto aveva dato ai Floyd negli anni passati, altrettanto aveva tolto in termini di coesione musicale e umana all’interno della band. Questo aspetto viene apertamente a galla nel 2014, quando le musiche che comporranno The Endless River riveleranno sostanza indelebile a proposito di cosa stesse avvenendo nei Floyd tra il ’93 e il ’94.

Anche in questo gioiello, targato Gilmour/Wright/Mason e retto da fondamentali contributi lirici di Samson, constatiamo che gli ambienti totali creati dai brani, pervasi da una rilevante profondità  data dai cori – che in questo album rivestono un’inusitata centralità, si tendono in un’armonia di musica e luce tale da consolidare il rapporto tra la band e noi ascoltatori, creando di fatto uno spunto fondamentale, teso alla ridefinizione del rapporto tra individuo e spazio sociale.

E’ un recupero dell’importanza dell’aspetto comunicativo quello che i Floyd vogliono rappresentare con The Division Bell, non tanto in completo conflitto negazionista con i toni accusatori e di denuncia precedenti, quanto in evidente complementarietà: nulla si cambia senza il dialogo e l’empatia, anche nei conflitti più aspri, poiché è della comunicazione e della parola che consta l’essenza umana. E’ attraverso la mediazione dopo lo scontro che l’umanità è progredita.

Da questo punto di vista le liriche di questo album sono persino da considerarsi progressive rispetto all’impianto concettuale watersiano, più intinte di filosofia che di politica, più di meditazione che di sfogo. E’ questo contrasto di metodo narrativo a rendere l’album esso stesso simulacro dei propri messaggi, laddove risulta tra quelli accolti dai fan in maniera maggiormente ambivalente e polarizzata.

Questo impianto di fondo è evidente sin dall’artwork della copertina, le due teste di acciaio bidimensionali, con la bocca spalancata e gli occhi vacui che enigmaticamente ci e si osservano dal 1994. Esse sono una chiara rappresentazione di esseri umani incapaci di comunicare nonostante la vicinanza fisica, imbullonati e rigidi nelle loro posizioni e che, per questioni di principio, rimangono rigidamente lontani l’uno dall’altro, senza alcuna empatia reciproca e senza pervenire ad alcun punto d’incontro verosimilmente condiviso, seppur ostinatamente cercato.

Nei singoli brani risulta quindi lampante come sia la comunicazione l’elemento centrale dell’LP, dono conquistato nella notte dei tempi, capace di appianare e risolvere innumerevoli contese e discussioni figlie di pensieri ed elucubrazioni complesse che spesso portano allo scontro e ad erigere muri ostinatamente divisivi. Ciò è brillantemente descritto nel brano Keep Talking, dove David si cimenta in un intreccio vocale da brividi con le coriste, mentre Rick annoda la sua voce ai morbidi cori in Wearing The Inside Out.

Musicalmente, con questo lavoro contraddistinto da abbellimenti formali dalle geometrie curvilinee, i Pink Floyd confermano ancora una volta che ogni nota è un evento ed ogni brano non contiene spazi vuoti privi di significato ma, anzi, costituisce un contenitore colmo di indicazioni, spunti, riflessioni e bilanci.

Anche in questo album la musica è il risultato di un processo concettuale, di un modo di creare musica di passata memoria, cioè dove è il gruppo a fare musica e l’improvvisazione costituisce il seme dei brani, con lo spartito sottoposto a continue verifiche, spostamenti minimi, persino ossessivi, che conducono alle canzoni per come le conosciamo, dove musica e testi, confermandosi inscindibili, si influenzano reciprocamente dissolvendo i volumi quotidiani della reciproca incomprensione.

Il titolo The Division Bell impone, come nella tradizione parlamentare inglese cui l’album rimanda, di decidere da che parte stare, di farsi carico delle proprie responsabilità, coscienti del fatto che le proprie azioni portano inevitabilmente a conseguenze dirette, seppur spesso dall’esito imprevisto, come quelle avvenute in quei burrascosi primi anni ’80.

L’album apre con Cluster One, quasi a farci esplorare le profondità stellari dell’universo, costantemente sopra di noi ed allo stesso tempo eternamente enigmatico, alla ricerca di suoni e tracce extraterrestri, stelle nascenti, nebulose, ammassi gassosi con sullo sfondo infinite albe e infiniti tramonti. La stratocaster di David punteggia di stelle uno splendido cielo notturno a costruire costellazioni mai viste prima e ci introduce ad esplorazioni e simmetrie tra spazio e mente, a strutture macroscopiche e neuronali, invitandoci a meditare sul senso dell’universo, alla ricerca del battito del cosmo.

Con Cluster One i Floyd sembrano atterrare da queste profondità galattiche sulla Terra portatori di un messaggio da loro già esplorato e sviscerato grazie a frequentazioni extraterrestri, e pronti ora a comunicarlo al mondo. Aperto lo scrigno spaziotemporale, il messaggio è quello di una profondissima empatia, di paesaggi verdi sterminati e valli popolate da volti che esprimono eterna e familiare vicinanza. Ancora una volta i Floyd sovvertono ciò che ci si aspetta e mostrano fin dall’inizio – all’orecchio attento del cuore non bisognoso di parole – il messaggio finale.

Ma l’idea motrice, che porta alla concettualizzazione ed esternazione esplicita del messaggio, è sempre quella dell’indurre ragionamento, dubbio, costante ricerca della verità, come espresso al meglio nei brani a seguire What Do You Want From Me, Poles Apart e Wearing The Inside Out.

Il primo di questi parte con un groove blues rock tra i più potenti che la band abbia mai concepito. Tastiere e basso formano un agglomerato paludoso che trascina l’ascoltatore dritto verso il pulsare delle proprie viscere. La chitarra di David intarsia dei fill taglienti che sollevano l’arrangiamento e costruiscono un contrasto quasi schiacciante con la sezione ritmica, lasciando il nulla in mezzo. Ad un certo punto la svolta di chiara ispirazione Wrightiana (i back vocals di Rick sono per altro meravigliosi) fa sollevare ancora di più verso l’alto il registro dell’ascolto, facendoci percorrere dolci declivi e percorsi introspettivi difficili da concludere senza commozione.

Poles Apart ci fa tornare alle atmosfere bucoliche di alcuni brani dei primi anni ’70 dei Floyd ma la differenza a livello lirico è abissale: questo pezzo mette al centro problematiche esistenziali e relazionali come mai il quartetto post-barrettiano avrebbe mai potuto concepire, nemmeno attraverso la penna del meno che trentenne Roger. Persino la struttura del brano, con parte melodica / effetti / reprise e finale richiama molto di quegli anni. Splendido l’assolo di David, forse tra i più belli dell’album.

L’ascoltatore è assalito all’improvviso da Marooned. Le atmosfere di Poles Apart non sembrano alludere a nulla del genere, ma quando la narrativa pianoforte/chitarra di questo pezzo entra, il pathos si rafforza immediatamente e l’attenzione converge rapidamente dall’ondeggiare di dolci arpeggi alla tensione tipica dei momenti più magici ai quali i Floyd ci hanno abituato.

E’ chiaro fin dall’inizio, e fin dai primi ascolti, che Marooned è uno dei capolavori assoluti della band. Le armonie minori tipicamente floydiane – come sibille svelatrici di innumerevoli segreti – sono ancora protagoniste e ci portano nel giro di poche battute a viaggiare immersi nel pieno di un’esplorazione onirica fatta di cieli immacolati, chiari lunari ed anime di pura essenza.

Privi di qualsiasi peso corporeo, e dotati solo di evanescente cognizione e crescente emozione percorriamo tornanti sempre più stretti, che ci permeano e ci abbracciano in una spinta emozionale irresistibile fino al climax. Questo è un momento molto preciso del brano, circa a 4:05-4:15 della versione ufficiale e 2:55-3:05 della versione tagliata su vinile, dove per una battuta soltanto l’armonia devia su un accordo di svolta per poi tornare sul percorso d’uscita del brano. Questo punto esatto, dieci secondi in tutto, è il mostrarsi stesso della quintessenza floydiana, è lo squinternarsi per un istante infinito del loro segreto, e allo stesso tempo l’occasione infinitesima di godere della loro eterna luce ispiratrice.

In particolare in A Great Day For Freedom si affrontano questioni politiche e sociali di interesse collettivo, con fulminanti sintesi visive e riflessioni sul valore del denaro come strumento di potere, che genera disuguaglianze ed ingiustizie, mentre Gilmour dedica al brano un assolo di chitarra con una espressività da nodo in gola e pelle d’oca ad ogni suo ascolto, inducendoci a sezionare con la mente i bending sulle corde della chitarra per capire quale sia il meccanismo che porta a tanta bellezza musicale.

Indubbiamente il filo conduttore dell’LP mette sotto il riflettore la difficoltà nell’esprimere le proprie emozioni, quell’inettitudine figlia della società della comunicazione di massa e del consumo, più orientata a subire il pensiero altrui e, conseguentemente, rattrappita nell’esprimere il proprio, articolandolo in maniera intelligibile.
Avviene così, per l’ennesima volta, che i Pink Floyd effettuino uno zoom bruciante sul reale, uscendo da una mappa predefinita per creare musica che va a coincidere con la realtà fluida e precaria dell’individuo.

La tematica nascosta, che costituisce uno sfondo scenico costante su cui l’album si poggia, è fondamentalmente lo scorrere inesorabile del tempo, che ai primi ascolti non si evidenzia immediatamente, ma che in realtà ne costituisce uno dei pilastri fondamentali, vero e proprio liquido amniotico in cui l’intero l’album è immerso.
L’intensità e l’attenzione formale, sublimati in una realtà disturbante e claustrofobica descritta in alcuni brani, confermano come i Pink Floyd continuino ad essere dei magistrali creatori di immagini sonore, trascinate dall’infinito scorrere di un fiume musicale, alter ego di un viaggio illimitato ma svolto sempre coerentemente.

Riprendono così il concetto di quella clessidra che misura lo scorrere del tempo, il cui granello di sabbia, impercettibile, leggero ed inarrestabile, cadendo non produce rumore ma, inesorabilmente, scandisce il passare della nostra esistenza, coscientemente assimilabile ad un male sotto pelle, impossibile da scrollarci di dosso.

Crediamo che la valenza ed il messaggio di The Division Bell sia da ricercare prevalentemente in un chiaro messaggio che i Floyd hanno voluto trasmetterci alla soglia dei loro 50 anni di età e che cioè l’uomo deve funzionare in maniera sociale e mai secondo un volgare egoismo personale. Ci allertano in merito alla comunicazione non espressa, pericolosamente trattenuta, carica di incomprensioni e, di conseguenza, detonatore di conflitti relazionali, seppur nel brano Lost For Words si faccia riferimento a tentativi di riappacificazione con l’altro, dal non scontato esito positivo.

Ci piace sintetizzare l’intero l’album con una immagine ben definita: un uomo di spalle che osserva un arcobaleno divergente verso il firmamento, languida estensione della rifrazione prismatica del ’73, non tanto per possibili liason musicali tra i due lavori ma, piuttosto, perché il motivo musicale si contrappone ai testi, principalmente, guardando dietro di sé, di ciò che la band ha fatto ed è stata, narrando di rimpianti incolmabili, soddisfazioni e resoconti. Di particolare rilevanza in questo senso è la nostra analisi del brano High Hopes.

Nel confermare che anche questo LP costituisce nutrimento della nostra anima floydiana, il cui orizzonte fatto di musica e testi attualizza l’album e lo rende atemporale, esso è capace di attraversare indenne gli anni grazie alle tematiche affrontate, affermando ancora una volta come i Pink Floyd costituiscano luce e suono per la nostra personale fotosintesi clorofilliana, irradiando la nostra anima e purificandone le tossicità accumulate quotidianamente, facendoci periodicamente tornare alla vita come nel brano Coming Back To Life, mentre risulta incredibile come, ancora una volta, riescano ad usare la fotografia senza macchina fotografica, confermando lo stile dell’accumulazione di sonorità nuove dal consistente peso specifico, assurgendo al ruolo di alchimisti della musica.

Il brano di chiusura dell’LP è High Hopes, capolavoro indiscusso, che conia momenti e sensazioni di indiscutibile bellezza, grazie a quel metallo fuso contenuto nel crogiolo della vita.
Le figure sonore indotte sono assimilabili a cieli ricoperti da lastre di piombo e spazi sintetici accompagnati da prati metallici punteggiati da alberi piegati dal vento dell’umana incomprensione, mentre il magistrale assolo finale di slide guitar costituisce la nostra immaginaria scappatoia atta ad alleggerire i fardelli imposti dalle dilanianti aspettative sociali dei tempi passati.

Possiamo, in conclusione, ben dire che le canzoni, nel loro complesso, dipingono un mondo di forme urbane non intelleggibili, dalle forme instabili, incomprensibili, la cui indesiderata esistenza è figlia del comportamento umano, mentre il loro stesso componimento musicale non è mai cerebrale ma attraversato da un sentimento policromo e polivalente, classificando ancora una volta un loro album come un vero e proprio palinsesto sensoriale.

Nelle ultime strofe di High Hopes, è racchiuso, quasi come un commiato, tutto il significato dell’LP e, forse, dell’intero percorso floydiano che, incentrando la tematica sulla variabile temporale ed identificando il trascorrere del tempo come un bambino che gioca, chiude il cerchio tra il ’94 ed il ’67 in un urlo soffocato, sommesso, pronunciato a labbra serrate:

The endless river

Forever and ever


stendendo intorno a noi un perimetro posto a nostra indiscussa protezione dal quale, sporgendoci, possiamo ammirare il fiume senza fine il cui primo affluente parte da quel lontano 1967.