Atom Heart Mother

Diceva Nietzsche che l’arte nasce dall’unione di due elementi: un grande realismo ed una grande irrealtà.
È con questa premessa che la nostra analisi del brano Atom Heart Mother del 1970 vuole incominciare, sottolineando quanto il realismo ed il paradosso si fondano alla perfezione in questo pezzo che apre l’album omonimo, contraddistinto dalla viscosità di un vero e proprio mastice delle idee.
Abbiamo sempre interpretato questa canzone come una serie inanellata di messaggi criptici, dei veri e propri cerchi nel grano dove i Pink Floyd vogliono dirci qualcosa di potente, innaturale, trascendentale, creando ambienti metafisici richiamanti vere e proprie opere mentali come un quadro di De Chirico.
La band conferma, con questo, una nuova grammatica musicale, un tornante storico di straordinaria attualità, in uno stile volontariamente, ed enigmaticamente, richiamante quasi una sonorità alla rinfusa che stordisce e disorienta.
Il significato del titolo della canzone viene disinnescato quando si stende davanti a noi questa surreale performance che esplora fantasia, ricerca, esperienza, provocazione e che fa emergere quanto siano preponderanti i codici percettivi di un rapporto tra musica e spazio in un eccentrico e radicale percorso creativo.

Il brano, della durata di oltre 23 minuti, è la prova di come l’atto creativo dei Pink Floyd non è stato mai consequenziale e rettilineo, ma tortuoso, magmatico e analogico, un luogo dove il tempo risulta sempre coniugato al presente, con irruzioni musicali che pongono l’accento sull’istante.
Emerge chiaramente, durante il passare dei minuti, il disorientamento dell’ascoltatore a causa delle continue variazioni, ripetizioni, capovolgimenti dell’immagine sonora che si fa via via più incalzante. Questo è il risultato della realizzazione di ambienti interattivi, spesso disorientanti, veri e propri luoghi da abitare psichicamente, ove si avvicendano ambienti e scenari, spazi reali o immaginari in cui la musica è applicata per amplificare una dimensione di ascolto, con lo stesso risultato di fari mentali che illuminano le zone d’ombra sinaptiche.

La suite, perché di questo si tratta, è costituita da un susseguirsi di cieli dalle diverse sfumature, che si scompongono fin quasi a sciogliersi l’un nell’altro, con passaggi dolci, geniali, impensabili ai più.
Un paio di esempi valgono per tutti, quando al minuto 4:00 la slide di David entra dolce, virando la temperatura del brano su una tonalità verde scuro, oppure quando al minuto 14:30 la batteria di Nick accompagna il coro e gli ottoni lungo il sentiero sinfonico del pentagramma.

Queste transizioni sono veri e propri spazi che si svuotano, dei linguaggi aperti che interrogano l’ascoltatore, dei pensieri limpidi, chiari, delle immagini che fermano il nostro cammino, che colpiscono ed attirano la nostra attenzione.
Con questa sua divisione in parti, le musiche sono contraddistinte da un severo controllo della composizione e da una notevole padronanza strumentale e, come per altri lavori, colpisce come il mistero delle cose non sia mai definitivamente definibile, proprio perché nelle loro opere la rappresentazione si fa predizione e la musica dà consistenza all’immaginazione.

L’atmosfera onirica del brano è spesso filtrata da accenti lisergici, in un intreccio di echi surreali che restituiscono suggestive sonorità sospese sotto cieli geometrici che, visti con angolature insolite e in un ipotetico accostamento disordinato, assumono un accento stupefatto e quasi metafisico.
Questa struttura del pezzo instaura un rapporto ad oggi ininterrotto e libero, con suoni e liriche sempre più varie e complesse, evocando, a livello simbolico, una sorta di trasfigurazione alchemica della realtà, indagando ampiamente l’eclettismo della band che, di fatto, crea una sinfonia polarizzando l’attenzione su determinati dettagli.
La parte iniziale della suite è contraddistinta da un insieme sonoro che evoca una prova generale, una pletora di strumenti che cercano l’accordatura, ma anche un’idea, anzi un’identità, consapevoli che individuali eccellenze non si qualificano nell’insieme senza una guida.
L’impressione è che quel caos, dove si fa fatica a distinguere i singoli suoni, sia un preziosissimo serbatoio di idee, una confusione capace di alimentare la riflessione, un disordine difficile da mettere in relazione con il rigore formale del brano, ma che ne è imprescindibile contraltare.

Ed è per questo motivo che al minuto 1:25 entra in scena l’essenza della musica floydiana per mettere ordine dopo l’intro orchestrale cacofonico, con pentagrammi e strumenti musicali che, manipolati dai Floyd, contribuiscono a ribaltare i canoni della musica, proseguendo quanto iniziato da quel fatidico 1967.
Al minuto 13:25 i Pink Floyd tramite contrasti stridenti per denunciare l’ambiguità della comunicazione, effettuano la dematerializzazione del testo. Il coro mette in evidenza la vera natura della band, un essere sopraggiunto sulla terra da mondi lontani, che esibisce un proprio linguaggio, un alfabeto nuovo, suggerito con un nuovo sfondo musicale mentre la scena è immersa in un’atmosfera enigmatica, accompagnata dai bagliori lisergici di fine anni 60.
Di fatto un paesaggio visivo e sonoro surreale, allo stesso tempo corale, intriso di enigma, di misteri sublimati nella vivacità e nella sensualità del colore musicale, improntato all’eclettismo tra diverse prove espressive ed atmosfere spiazzanti.
Mentre la puntina del giradischi solca l’avvallamento vinilico dell’LP, il susseguirsi dei tasselli cromatici, che compongono la performance, producono un sottile disorientamento, con sonorità sognanti, surreali, e rivisitano i canoni delle tradizionali forme espressive, dove aleggia un senso di meraviglia.
Abbiamo così l’ennesima conferma che i Pink Floyd non proiettano un’immagine sul pentagramma per ricalcarla, bensì ne usano più di una per costruire a mano libera strutture musicali per indurre complesse figurazioni sonore. È questa la nuova musica dei tempi che, filtrata dell’immaginazione e dalla meraviglia, riesce a materializzare nel solco del vinile gli stati d’animo più reconditi, che trovano espressività solo grazie alla musica.

In conclusione riteniamo che il brano nasca intorno all’esplorazione ed alla sfida che ha come protagonista assoluta la musica, come presa di coscienza individuale, con vere e proprie virate, invenzioni e sconfinamenti in territori inesplorati, accompagnate dal potere irresistibile della fantasia che ha riconfigurato il modo ed il senso della musica.
Ci troviamo così al cospetto di un capolavoro mai offeso dal tempo e che trova, anch’esso, più di un motivo per metterlo sullo scaffale della storia.