Dogs

La copertina dai toni rossastri dell’album Animals del 1977, con l’imponente sagoma velenosa della Battersea Power Station, mi ha sempre trasmesso un senso di apprensione, capace di scuotermi fin nella spina dorsale e suscitandomi una affilata sensazione di disagio.
Tutto l’album, a differenza dei capolavori quali The Dark Side Of The Moon con tematiche incentrate sull’uomo, e Wish You Were Here con temi che guardano a quell’io svuotato dall’incolmabile sensazione di assenza, è questa volta una feroce accusa verso l’altro, verso chi procura un danno con il suo comportamento irresponsabile (Dogs e Pigs) o apatico/dimesso (Sheep). Infatti la rabbia espressa da musica e testi è palpabile e concreta, e rappresenta un turning point epocale nel percorso musicale della band, e costituisce il seme che darà vita solo due anni dopo all’opera monumentale The Wall .

Dogs, secondo brano dell’album, apre con un giro armonico inusuale per la chitarra acustica di David, e quelle pennate così piene e corpose sono musica sublime per le mie orecchie ed entrano sottopelle sin da subito.
Avverto distintamente che mi aspetta un brano molto interessante e vi assicuro che i 17 minuti sono un viaggio sonoro eccezionale che lascia impressi nuovi motivi, mai domi, nella nostra identità.
Titolo e lyrics puntano il dito accusatorio su coloro che sono sfacciatamente pronti a tutto pur di un loro personalissimo tornaconto. Sono i cani, descritti alla perfezione nel brano scritto a quattro mani da Gilmour e Waters: indossano una stupenda cravatta, danno strette di mano vigorose e hanno il sorriso facile, capacità ammaliatrici idonee a lavorarsi la vittima e sferrargli la coltellata mortale nella schiena al momento più opportuno.

Siamo, anche in questo caso, di fronte all’arte dei Pink Floyd, quell’arte sublime capace di rivoluzionare la società, di porla forzatamente davanti allo specchio delle proprie responsabilità, al fine di interrogarsi sul proprio percorso più che sulla propria destinazione: è questa la vita che vogliamo? È questo quanto vogliamo che succeda e che continui imperituro?
E la collettività, che assiste passiva e impassibile, deve opporsi a tali atteggiamenti di pochi che portano inevitabilmente alla distruzione di tanti.

La bravura della band, con ormai al ponte di comando Roger, pesca nell’immaginario collettivo per mettere in comunicazione memoria ed oblio, e riesce ad annichilire la grandeur dei cani, mettendoci in guardia.
I testi, con significati marcatamente originali rispetto a quanto fino a quel punto la band ci aveva abituato, col l’eccezione di Have A Cigar e Welcome To The Machine, eliminano le scorie e le sovrapposizioni imposte da una società omologata, mentre la musica consolida la quasi alternanza tra momenti più incalzanti e momenti più tranquilli.

I Pink Floyd ci scuotono vigorosamente per destarci dal torpore e farci prendere coscienza del fatto che, quello che accade sotto i nostri occhi, non deve essere solo guardato distrattamente ma anche visto e capito.
Alla base di questo concetto sta il fulcro, il cuore del brano, nonché dell’intero album, che si pone l’obiettivo evidente di un j’accuse tagliente ed affilato.

La canzone esprime tutti questi significati con una esecuzione cristallina dei quattro musicisti, un fine intarsio strumentale che mi lascia piacevolmente stordito circa le diverse e variegate finestre sonore che si aprono su altrettante dimensioni, per proiettarmi lontano dal quotidiano e ristorarmi dalle fatiche della vita.
Il synth di Rick, ancora una volta, disegna atmosfere sognanti (ponete particolare attenzione al viaggio onirico che intraprende al 10° minuto … abbiamo già parlato vero dei crediti perduti di Rick?) mentre Nick alla batteria descrive minuziosamente il mood del brano, con David che esegue dei solo di un’espressività disarmante, accompagnato dalle quattro corde in chiave di basso di un Roger in forma smagliante.

Le sonorità del pezzo mi proiettano nei meandri metallici della Battersea, dove mi aggiro circondato da lunghe ombre sinistre color ruggine, mentre i Pink Floyd dimostrano ancora una volta che l’uomo non sarà mai sostituito dalla tecnologia, ma questa si pone solo come un valido strumento per esprimersi al meglio, mirando a specificare minuziosamente, le sonorità formulate dalla mente.