Have A Cigar

I Pink Floyd sono il filtro che permette di vedere le cose sotto una luce tutta nuova.
La loro esistenza risiede nei loro componimenti, i quali vivono e vivranno una loro propria vita, si evolveranno ed in ogni epoca saranno contemporanei, impermeabili al tempo. La convinzione è che il valore della loro musica è metafisico, insondabile e ha ben poco a che fare con il valore economico e con il contesto contingente in cui sono nati.
A questo concetto troviamo aderenza nel brano Have A Cigar del ’75, appartenente all’album Wish You Were Here, e magistralmente legato al brano Welcome To The Machine che lo precede.
Have A Cigar narra dell’irragionevolezza del mercato discografico e di come questo viva dell’ubriacatura delle cifre iperboliche. Il collezionismo, il mercato e l’economia comandano il sistema e formulano un loro punto di vista sulla musica e sugli artisti, mentre gli eccessi dovuti ad un atteggiamento brutalmente ignorante, possono tramutarsi nella distruzione compositiva degli artisti, schiacciati da quelli che li frequentano per mero tornaconto personale; di conseguenza, il piratesco arrembaggio alla diligenza portatrice di soldi in gran quantità, conduce inevitabilmente a far soccombere la qualità.
Attraverso liriche quanto mai efficaci, ad opera di Roger – ormai impadronitosi della vena concettuale della band, con Have A Cigar i Pink Floyd descrivono perfettamente il concetto sopra esposto.
L’affabilità del manager discografico, che fa parte della squadra se c’è da guadagnare una montagna di soldi, ma che in sostanza nei confronti della band e della loro produzione musicale non ha alcuna empatia, si percepisce chiaramente nei versi:

The band is just fantastic, that is really what I think,

Oh, by the way, which one’s Pink?

Il cinismo trapela potente da queste parole, che nello spazio di pochi secondi iniettano sulla scena percepita dall’ascoltatore uno scenario fatto di ammiccamenti, falsi complimenti, interesse mal celato a individuare la massimizzazione dei profitti, anche a costo di spaccare l’unità magica della band. Ancora una volta Roger si rivela un poeta raffinato e allo stesso tempo tagliente e ineffabile, in grado con poche pennellate di dar vita a scene vivide e penetranti.

La farsa prosegue, e dato il successo commerciale ottenuto dalla band, il manager preme per l’uscita di un nuovo album:

You’ gotta get an album out

You owe it to the people

We’re so happy we can hardly count

E’ chiaro che qui “the people” assume un significato ambivalente: da una parte essi sono i fan, gli ascoltatori, il pubblico, che merita un altro capolavoro. Dall’altra parte il riferimento è al “circo equestre” fatto di professionisti del lucro, dei manager senza scrupoli che ruotano attorno alla band. Schiacciati tra incudine e martello, gli artisti non solo si sentono in dovere di produrre altra musica, ma devono farlo a prescindere dall’esistenza dell’ispirazione artistico creativa: questa ormai non ha alcuna importanza di fronte al business.

Il testo di questo brano è l’ennesimo esempio di come i Pink Floyd cercano di rendere più chiara la visione della realtà irreale che tutti viviamo giocando sugli incastri musica/testi, creando un amalgama liquido, dove a volte non sappiamo ricondurre cosa a chi e viceversa.

Nel caso di questo brano, e più in generale dell’album, il processo creativo è quanto mai importante. Sia perché esso rappresenta in qualche maniera il culmine del loro progetto, sia per il procedimento adottato dai Pink Floyd nella loro fase creativa, con spinte emozionali e sentimenti personali propulsori e guida del componimento artistico.

Il concetto espresso nel brano, molto caro alla band dopo l’abbuffata di notorietà e successo conseguente al capolavoro The Dark Side Of The Moon, è ripreso successivamente sotto un’altra veste nei brani quali Dogs del ’77 e nel monumentale The Wall del ’79, concretizzato per immagini nell’omonimo film, che vede protagonista proprio la rock star Pink, interpretata da Bob Geldof.

Dal punto di vista musicale c’è un aggettivo che secondo noi descrive perfettamente l’atmosfera del brano: tossico. L’inizio del brano assomiglia ad un blocco di catrame che scende dal cielo plumbeo di Londra. Melmoso e penetrante, l’approccio ritmico dei primi secondi stordisce per tessiture incrociate di synth, basso e chitarra che rappresentano perfettamente l’organizzata confusione che circonda la band ora sulla cresta dell’onda. Voci sottili e pungenti si mischiano a roboanti urla di affamati ammaliatori, tutte in coro a spingere gli artisti verso il baratro autodistruttivo.

Maliziosa e squillante, la voce di Roy Harper non fatica a comunicare tutto ciò in maniera perfetta, quasi diabolica. Splendidamente, il suo essere esterno alla band corrobora il concetto di fondo dell’intrusione distruttrice, che annienta la creatura stessa che la nutre.

Risulta molto interessante il solo di David, appoggiato ad arte sulle linee di sinth di Rick che con basso e batteria creano un sottofondo cromatico, e nel ritenerlo molto espressivo, è un dispiacere constatare che sia tra i meno conosciuti. Tecnicamente tra i più complessi della carriera di Gilmour, velenoso al punto giusto, porta il brano alla perfetta conclusione: dopo aver espresso delusione e rammarico attraverso il tema centrale del brano, cerca immediatamente conforto nel diamante pazzo, ormai perso da anni nelle sue nebbie mentali, sfumando, quasi senza accorgercene, nella struggente Wish You Were Here. Racchiudendo in sé il significato dell’intero album, l’epico pezzo arriva al momento esatto in cui ci si chiede: siamo diventati delle macchine da soldi?
Dietro questa domanda, amara, si intravede quel sentimento di assenza espresso a profusione per tutto l’LP, oggetto di culto che – per le sue dilatate atmosfere pinkfloydiane – amiamo a dismisura.