The Wall

La definizione di “concept album” spesso non si addice ai lavori dei Pink Floyd, ma The Wall del ’79 è proprio da definirsi tale e, ancora più marcatamente, un’opera rock totalizzante, un contenitore colmo di quella rappresentazione pervasiva del muro, emblema di divisione, di incomunicabilità oltre che di protezione, e non poteva essere più azzeccata per descrivere quel sentimento policromo che Roger aveva in mente.

Se è vero che le esperienze personali hanno segnato in maniera indelebile la sua vita, è altrettanto vero che i mega concerti del tour di Animals avevano spersonalizzato il ruolo della band, erigendo, di fatto, un muro di incomprensioni tra loro e l’audience; niente di più degradante se consideriamo il fatto che i Floyd hanno sempre affidato all’elemento musicale un ruolo fondamentale, una potente liaison mentale tra palco e platea.
L’album porta in maniera evidente la firma di Roger Waters, convinto di poter essere i Pink Floyd da solo, ormai divenuto di fatto il centro gravitazionale, il cuore pulsante attorno a cui ruotano gli altri componenti della band, sostanzialmente relegati al ruolo di arrangiatori delle idee e angosce watersiane. Queste sono accostate ad una profonda maturità compositiva, trasposte in testi atti ad accrescere la consapevolezza delle relazioni con l’altro, mirando a diluire quel sentimento lancinante frutto della propria esperienza dolorosa in un quadro più generico, vero e proprio contenitore di un fluido multicolore dalle preponderanti tonalità scure.
Il lavoro risultante è un’altra pietra miliare della band inglese che affonda le sue radici nel terreno fertile dell’opera mastodontica gradita al grande pubblico, dove le ricercatezze musicali, i tuffi al cuore indotti da linee di chitarre in equilibrio e da tastiere sognanti a comporre lunghe suite stranianti, lasciano il posto a vibrazioni che raccolgono un consenso allargato verso un pubblico più orientato alle linee dure del rock, seppur le liriche, marcate Waters, risultino profondamente intime ed introspettive.

Anche in questo lavoro i Pink Floyd sviluppano ed ibridizzano stili e tecniche in un linguaggio sonoro che non conosce limiti, dando vita a quella che può essere considerata di diritto un’opera polimorfa, confermando fino in fondo di essere gli equilibristi del dettaglio, i cesellatori del suono, artefici di lusso della grande esperienza sensoriale, che danno vita, voce ed arte alla narrazione musicale, arricchendola e rendendola fruibile ai più. Il tutto mentre attingono a piene mani alla densità simbolica delle nostre angosce, percorsi obbligatori che conducono ad un’aspra crescita psicologica dell’individuo.
In tal modo tutto ci appare come una porzione limitata del tempo e dello spazio seppur il percorso del doppio LP si dipani su un vasto orizzonte temporale.
Partendo da queste premesse inquiete, The Wall propone una serie di brani che riflettono sullo stato del corpo e della mente, ripercorrendo ambiti e territori psicologici dagli effetti drammatici, causati da traumi indicibili, ed in questo, i Pink  Floyd disegnano le armonie di un cortocircuito bruciante tra realtà e sogno, uno sguardo strabico che suggerisce, attraverso il lavoro da navigati artisti visionari, la possibilità di vivere quanto vissuto da altri, quasi a sperimentare in prima persona l’esperienza altrui, seppur dolorosa, di bui paesaggi interiori.

L’album, stimolando i meccanismi di percezione di chi ascolta, è largamente contrassegnato da atmosfere cupe, veicolo per contenuti decisamente impegnativi, intensamente tragici, atti a dilaniare l’anima tramite affilati motivi musicali.
Il risultato è un album dalle penetranti interpretazioni dove i Floyd cristallizzano, in un “momento” della durata di circa 80 minuti, l’attimo decisivo di un sentimento, crocevia di un accadimento importante della vita che rimarrà segnata per sempre e, ancora una volta, amplificano la nostra attitudine all’ascolto in una maniera tanto particolare quanto disarmante, con una naturalezza normalmente impossibile ai più, capaci di ingigantire il nostro senso di straniamento durante l’ascolto del capolavoro.

Per i Floyd i brani non sono uno strumento di rappresentazione fedele di idee precostituite,  ma un atto autonomo, un vero e proprio ragionamento per immagini sonore dove le cromie musicali si intrecciano ed emergono da un groviglio descrittivo con una struttura polidroma di disarmante bellezza.
Tutto ciò giustifica ampiamente l’amore che nutriamo per la band, in grado di trasportarci in uno spazio, un altro luogo, raggiungibile solo attraverso la loro musica, un altrove esteso, avviluppante, multidimensionale, privilegio riservato a noi appassionati.

The Wall colloca le singole canzoni in visioni incalzanti, che stordiscono ad un primo ascolto, entrando di diritto in una sorta di colonna di sentimenti sperimentali, inducendo straniamento, angoscia, paura, alienazione, senso di impotenza davanti al susseguirsi di eventi dall’esito ineluttabile.
L’arte di suscitare risonanze emozionali nell’ascoltatore attraverso la forgiatura di accordi e assoli ben strutturati, con un coacervo di emozioni nascoste, alla ricerca del riscatto della schiavitù personale, sociale e dell’omologazione, fa dei Pink Floyd, e The Wall non fa eccezione, un fenomeno sociale non trascurabile, spesso oggetto di trattazioni di approfondimento, aventi come obiettivo l’ostinata ricerca della comprensione del meccanismo, o meglio dire del mistero, circa l’abilità di trasformare la musica in emozioni.

L’album apre con il brano In The Flesh? (che verrà ripreso più in là, senza punto interrogativo, in una forma ancora più sinistra) con un motivo puro ed innocente di sottofondo, profondamente idilliaco, quasi una litania, squarciato improvvisamente da musica minacciosa, prepotente, dal sapore marziale, dove il protagonista della canzone, Pink, una rock star paranoica, disillusa e clinicamente depressa che tratta con disprezzo il suo pubblico, fantastica di essere uno spietato dittatore fascista, osannato da una folla acritica, non pensante, su cui esercita un controllo totale:

If you want to find out what’s behind this cold eyes

you’ll just have to claw your way through this disguise

Il doppio LP, in un incedere mozzafiato di brani concatenati, veri e propri atti di una brillante pièce teatrale, prosegue a raccontare la storia di Pink con il brano The Thin Ice dove l’esistenza del figlio di una famiglia nucleare, iperprotettiva, è rapidamente ridotta in frantumi, svelando la fragilità cui gli esseri umani sono sottoposti durante l’esistenza della vita moderna:

The thin ice of the modern life

….

Don’t be surprised when a crack in the ice

Appears under your feet

Il brano Another Brick In The Wall Part. 1 introduce fugacemente lo spettro del padre di Pink in un perfetto intreccio duale con la vita di Roger, mentre, velocemente, siamo catapultati verso l’infanzia di Pink dove The Happiest Days Of Our Lives e Another Brick InThe Wall Part. 2 (brani chiave dell’album, contenenti quegli elementi che scateneranno le crisi nell’età adulta) attaccano ferocemente il metodo educativo scolastico, accusandolo senza mezzi termini della totale mancanza di empatia dei docenti verso gli scolari, che addirittura riversano su questi la rabbia repressa come risultante di una frustrante esistenza vissuta tra le mura di casa; invece Mother (che abbiamo già estesamente analizzato qui), uno dei brani simbolo dell’album, è un duro attacco ai genitori protettivi fino al soffocamento, travestiti da cantatori incalliti di ninne nanne, che ammoniscono i figli a non abbandonare il tetto familiare.
Goodbye Blue Sky, dal motivo musicale angosciante, duale di Welcome to the Machine del ’75, apre con un motivo da far accapponare la pelle e, nel descrivere visivamente l’addensarsi di oscure nubi nere sulle proprie teste, realizziamo repentinamente che altro non sono che bombardieri B29 portatori di morte.
Il personaggio di Pink entra quindi nell’età adulta (Empty Spaces), trasformandosi in un ragazzo pieno di odio intrappolato in un corpo da uomo maturo, per poi trovarlo scatenato senza freni verso le donne della sua vita in un sentimento di totale disillusione: le groupies (Young Lust e One Of My Turns) in cui una incomunicabilità marcata porta all’acme di un sentimento distruttivo, la moglie (Don’t Leave Me Now) con l’esito di finire solo ed isolato, mentre inizia ad avere le prime allucinazioni paranoiche.
Tutti i protagonisti della vita di Pink, prima angeli e poi demoni, sono uniti e concordi nel processarlo e condannarlo a ripetere il proprio spettacolo in eterno, unico motivo che porta i primi ad occuparsi di Pink, capace ancora di farsi acclamare dalla folla pagante.
È l’ultimo tassello di un puzzle che lo porta al definitivo collasso mentale ed al conseguente auto-isolamento, accompagnato da percezioni alterate, visioni da attraversare alla ricerca di una rarefatta realtà, con un marcato rovesciamento tra interno ed esterno, incapace di elaborare molte informazioni contemporaneamente, quindi con una minore capacità di riconoscere un raggiro.

Durante l’ascolto frequenti sono i richiami sonori ad aerei ed elicotteri, a simboleggiare da un lato l’inquietudine degli attacchi e delle incursioni dal cielo e dall’altro l’incombenza di disgrazie più grandi di noi, incontrollabili, atte ad anticipare presagi nefasti, e questo tetro sentimento, di cui l’album risulta intriso, è anche un effetto ottenuto dall’assenza di cori femminili, normalmente capaci di alleggerire le tensioni pentagrammatiche.

L’opera, contraddistinta da brevi e frequenti capitoli narrativi che si susseguono velocemente, è una vera e propria lettura riflessiva e dinamica, ed è facile ritrovarsi catapultati in un ambiente claustrofobicamente distopico, proiettandoci, senza accorgercene, direttamente nella sua trasposizione cinematografica di Alan Parker “Pink Floyd – The Wall”, vera e propria esperienza audiovisiva immersiva, un azzeccato attivatore di pensieri e riflessioni.
Perso nella sua assolutezza, possiamo anche noi immedesimarci in Pink in quanto esseri umani, ciclicamente deboli e quindi vulnerabili, giocando sul discrimine tra normale e psicopatico, pronti a cadere nella trappola mentale e costruirci un proprio muro auto-imposto, che uno erige intorno a sé per proteggersi dall’ostile realtà, dal senso di pericolo che ci costringe ad assumere una posizione protettiva fetale, come evocato nel brano Goodbye Cruel World.

Il tema dell’infanzia è ricorrente nell’album, sia nell’ambient che nei testi, mentre i motivi da marcia e controllo militare, accompagnati da stendardi simil-nazisti con due martelli incrociati, generano un motivo scenico tetro, dove guerra e memoria, ossessioni, angoscia e disperazione, creano il paradosso di nutrire vergogna per il sentimento di empatia dimostrata verso il prossimo.

L’ansia regna sovrana con l’insicurezza indotta a tratti da Comfortably Numb, Hey You e Is There Anybody Out There? e raggiunge l’acme in Run Like Hell, dove un sinth affilato di Wright descrive vibrazioni sonore che sembrano in equilibrio sul sottile crinale dello stordimento musicale, anticipate da un intro ansiogeno emanato dalla sei corde di David, mentre i brani Waiting For The Worms e The Trial sono in grado di scatenare in noi interrogativi profondi, ponendoci sulla sedia degli imputati in un processo ai sentimenti.

Ancora una volta i Pink Floyd dominano il suono e per questo non si fermano alla superficialità dell’abbaglio facile bensì scavano tra le pieghe più recondite dell’io interiore, vergano sul pentagramma le ossessioni meno digeribili, costruendo un’esperienza sonora di grandi dimensioni e di alto livello di perfezionismo formale.
È dalla sua uscita nel novembre del ’79 che tutti noi ascoltatori, rappresentanti dell’uomo moderno, sedotti dal tono apocalittico e funereo, siamo indubbiamente desiderosi – attraverso il suo ascolto – di avere una cassa di risonanza per le nostre paure e i nostri incubi, che hanno trovato ufficialmente il modo di essere descritte da trilli di telefoni e brandelli di dialogo mentre le accattivanti melodie sovrastano suoni di guerre, stridori urbani ed ordini da Gestapo, il tutto permeato da una macabra ritualità militarista.

Alla fine si concretizza in maniera graniticamente solida, la volontà di Roger, artefice di aver creato, dalle cupe riflessioni, un romanzo moralizzante, qualcosa che desse al mondo la sensazione di un baratro, di una sfida conclusiva, di un lavoro musicale che ponesse un punto di non ritorno nella storia musicale della band, quasi a voler porre fine al progetto floydiano nella maniera più spettacolare possibile, ergendosi ad artefice della soluzione finale della band.
The Wall diventa di fatto un incubo sonorizzato, una seduta dallo psicanalista, mentre la musica prosciuga l’anima, dopo essere stata dilaniata da megafoni persecutori, ed essere stato il campionario più intimo per eccellenza, che pesca nell’immaginario collettivo per mettere in comunicazione memoria ed oblio e trasformare l’ascoltatore in un verme.