Keep Talking

Non c’è dubbio che i Pink Floyd non abbiano mai attinto dal serbatoio dell’ovvio e del facile ed è per questo motivo che la loro arte, fatta di atmosfere visive e di suoni inglobati nel corpo delle immagini, ha sempre impressionato per la portata della loro opera sonora.
Non è da meno l’album The Division Bell del ’94, colmo di riflessioni e di resoconti circa un percorso artistico da togliere il fiato.
In particolare la nona traccia dell’LP dal titolo Keep Talking mi ha sempre affascinato per le spiazzanti sonorità e le conseguenti suggestioni che questo brano porta alla luce.
I suoni che emergono dall’intro, chiari elementi primordiali accompagnati da vividi sbuffi magmatici e sulfurei, mi hanno sempre fatto immaginare il lungo processo di evoluzione della specie umana che dalle remote viscere temporali si è protratto fino ai giorni nostri.

L’apertura, con un inserto vocale da brividi, è affidata ad un parlato, obbligatoriamente sintetico, di Stephen Hawking, una delle menti più illuminate della storia recente, a ribadire che la magia del comunicare è qualcosa di potente che abbiamo acquisito in un processo lento ma inarrestabile, tale da scatenare la potenza della nostra immaginazione, e portandoci per gradi alla nostra civiltà attuale.
E’ proprio la comunicazione tra esseri umani il fattore che ha cambiato completamente la percezione delle distanze e del tempo, avvicinando fra loro le anime e creando un legame tanto invisibile quanto tenace sottolineandone, indiscutibilmente, l’importanza.
Ancora una volta i Pink Floyd ci conducono alla riflessione sullo stato delle cose per risvegliare le coscienze, riportando le menti da uno stato passivo ad uno attivo e, di fatto, spingendoci a pensare in maniera lucida.

La tematica affrontata dal brano mi sta molto a cuore e realizzo ad ogni ascolto, come tanti altri pezzi creati dai Pink Floyd, quanto sia un brano dannatamente vero e attuale, incentrato su di una tematica universale. E proprio in questo meccanismo virtuoso, sta il rapporto profondo che ci lega alla band ed alle loro magiche e stranianti escursioni sonore.

La struttura del brano, a firma Gilmour/Wright/Samson, ha nelle liriche un intarsio vocale tra David e le coriste, costruito su una paralizzante dualità di voci.
Il chitarrista esprime a parole le limitazioni emotive dell’essere umano, bloccato ed incapace di comunicare nella maniera più idonea mentre le coriste, sostituendosi ad una voce interiore figlia di un crogiolo di coscienze, ribattono, chiedendosi quasi in maniera naïf, cosa sia che limita la corretta comunicazione della volontà umana.
Confermando come con la Stratocaster sia in grado di esprimersi al meglio, Gilmour si lancia in un solo di chitarra cattivo, di rabbia e sfogo, declinato su linee pentagrammatiche dure, demandando allo stesso tutto il possibile rammarico circa le parole trattenute, mentre a seguire Wright smussa quel sentimento con linee di sinth più dolci.

Nella parte finale del brano David, grazie alla talk box, rende solida quella sensazione di incomprensione tra persone, acutizzata tipicamente da posizioni ideologicamente diverse, emettendo suoni gutturali ammalianti che si mischiano, compenetrandosi, con la musica fino a costituirne un vibrante corpo unico, espressivo quanto mai, che ci inchioda durante l’ascolto in uno stato di mesmerizzazione profonda.
Gli stessi suoni, quasi assimilabili a vagiti di un neonato, esprimono un senso d’incomunicabilità acuta, figlia di un’inteleggibilità inesistente, snervante sia per chi parla che per chi ascolta, logorando gli animi fino ad un’acme intollerabile.
Magistrale e toccante è la chiusura del brano, affidata a colui che l’aveva aperto, Stephen, ostinato comunicatore nonostante le indicibili avversità della vita, che con quasi un sussurro,  dal sapore di consiglio fraterno, ci dice:

All we need to do is make sure we keep talking


Se volete una totale esperienza immersiva vi segnalo l’esecuzione live del ’94 all’Earls Court di Londra dove la band ha tributato alla propria città un caldo e abbacinante abbraccio luminoso con una ipnotica parte finale del brano, confermando ancora una volta la straordinaria capacità di creare atmosfere senza tempo con il sapiente impiego di tecniche ibride.