Nick Mason SoS

Per anni Nick Mason ha aspettato una chiamata dai compagni per tornare ad esibirsi e fare musica, ma il telefono non ha mai squillato.
Ma la voglia era tanta, troppa, per cui il batterista e membro fondatore dei Pink Floyd ha pensato bene, in maniera intelligente ed imprevedibile ai più, di far da sé e di attingere a piene mani dal repertorio meno pomposo ma più intriso di libertà espressiva, e di possibile improvvisazione e rivisitazione, evitando con classe il rischio incorrere nell’inutile polemica del “ma il pezzo non suona così“, “certo che l’assolo di David era un’altra cosa…“.
Da qui la gioia di tornare ad esibirsi in totale libertà, divertendosi e ritrovando quelle stesse atmosfere di fine anni ’60 e primissimi anni ’70, colme di ottimismo, dove tutto era una continua sorpresa e scoperta, invenzione e sperimentazione.

Attraverso l’ascolto del progetto di Nick, Nick Mason’s Saucerful of Secrets, riscopriamo quindi quei suoni – che già così innovativi per l’epoca – troviamo oggi magicamente celestiali, straordinariamente fuori dall’ordinario e dal grigiore musicale che ci circonda, attanagliandoci da tempo come cartina al tornasole del quotidiano.

In un recente passaggio Nick ha affermato:

Vorrei vincere allo stesso tempo sia il premio per il miglior artista emergente che quello alla carriera

e sinceramente siamo d’accordissimo su un’affermazione del genere, intrisa del miglior humour targato UK ma così strepitosamente vera a guardare i fatti di cui siamo stati testimoni.
Infatti la proposta musicale di Mason dal 2018 ad oggi ha centrato quell’obiettivo che in tanti talvolta inconsciamente chiedevano, cioè quello di tralasciare temporaneamente la pomposità floydiana ed accostarsi alle prime sonorità dei Floyd, del “con questo tutto è iniziato” dal sapore genuino, fresco, senza preconcetti e forzature imposte, per le quali possiamo dire, senza dubbio, di avvicinarci ad un ascolto mirato alle prime atmosfere floydiane. Un ascolto che non rivela un pedissequo rifarsi agli arrangiamenti (per altro – diciamocelo – piuttosto acciaccati) di quei primi dischi, ma una vera e propria (ri-)costruzione che partendo dai medesimi principi raggiunge – incantevolmente – i medesimi risultati.
Un progetto essenzialmente live quello di Nick, che non poteva non allettarci a tal punto da prenderne parte in prima persona. Infatti, al concerto di Milano del 20 settembre 2018 eravamo lì, poche file lontano dal palco. Credeteci, l’atmosfera carica di corrente ad alto voltaggio percorreva tutta l’audience, anticipata da sottofondi lisergici che ci catapultavano nella Londra di fine anni ’60.

Ma ancor prima di dar sfogo ad uno dei più strabilianti spettacoli che da lì a poco sarebbe iniziato davanti ai nostri cuori, poteva il nostro istrionico conservatore dei segreti più intimi della band non sorprenderci con l’esatto contrario di ciò che un floydiano medio si aspetta da un concerto floydiano medio? Ebbene ovviamente no. Uno di noi, Albi, ha presenziato sia nel 2006 che nel 2016 ai concerti solisti di David, rispettivamente a Milano (nello stesso Arcimboldi) e a Verona (ne parleremo magari in un prossimo post), riscontrando fin da subito come la presenza nei dintorni del rock god assoluto fosse in grado letteralmente di penetrare le membra delle città come coltello nel burro in ogni loro meandro, con affissioni, volantini e merchandising di ogni genere. Giusto … dirà qualcuno. Stiamo parlando di David Gilmour, stiamo parlando di uno che ha contribuito a fare un certo concertino a Venezia nel 1989 (ehm …). E non sono mancati nemmeno i classici fenomeni da divo: ben 2 ore di ritardo per l’inizio del concerto di Verona. Ebbene Nick invece? Ricordo ancora come ci siamo guardati attoniti constatando come nemmeno all’occhio più attento sarebbe apparso evidente un bel nulla di nulla a ricordare o a pubblicizzare che a pochi metri c’era un altro rock god quella sera. Nessun manifesto, niente merchandising, nessuno sfondo su cui fare il classico selfie per i posteri. Anche la gente era molto tranquilla (a differenza delle calche estasiate dei pre-concerti gilmouriani). A quel punto, abbiamo persino temuto che saremmo stati delusi da tanta “assenza”, da tanta differenza rispetto all’atteso, rispetto alla teatralità attorno alla quale eravamo abituati ad imperniare tutte le esperienze dei live floydiani (e persino – incredibile a dirsi – dei live delle cover band!!!). Ma quei dubbi si sarebbero dissolti da lì a poco.

Nick è circondato da musicisti bravi, motivati e contenti di fare musica in totale libertà, che vogliono solo divertirsi e che ben si sono calati nella parte.
La scenografia è quanto di più azzeccato ci sia, con degli artwork onirici, immersivi per chi ama fruire dei loro concerti dal sapore lisergico anni ’60, dove vengono riprodotti quei suoni psichedelici che tanto ci fanno sognare, amplificando a dismisura la nostra percezione dell’io e proiettando la nostra mente verso dimensioni impensabili.
Un ruolo fondamentale lo giocano le tecniche sonore odierne, capaci di dilatare i suoni di 50 anni fa catapultandoli nei nostri giorni, dando quella corposità e rotondità al suono che non avremmo immaginato ascoltando gli stessi su vinile.

Nick si staglia al centro del palco, imponente, ad esprimere una forza scaricata su pelli e piatti da far invidiare i novelli batteristi per l’entusiasmo ritrovato, rinvigorito da un’energia e da una positività disarmante. Quasi tremiamo nel pensare che davanti a noi si staglia un membro fondatore dei Pink Floyd, band conosciuta in ogni angolo del mondo e – allo stesso tempo – in ogni angolo della nostra personale anima musicale.

L’inizio del concerto chiarisce fino da subito qual è  la forza della band: la loro musica immerge l’ascoltatore in onde luminose, interpretando lo spazio ed il tempo come vibrazioni ottiche, creando un mondo utopico che potrebbe esistere oltre i confini della nostra immaginazione quotidiana, caratterizzando e facendo a pezzi l’impersonalità del digitale, mentre deridono sfacciatamente le identità socialmente costruite e prestabilite, alterandone le forme per criticare la fragilità degli stereotipi socialmente imposti.

La musica si manifesta come uno spiraglio di luce che squarcia il buio diventando accecante per un’immagine completamente astratta, ammaliante al punto da costringerci a lasciarci trasportare da suggestioni oniriche. Arriva diretta negli occhi, mentre i deliri trasposti in vibrazioni sonore moltiplicano le frequenze percepibili e ci abbandoniamo completamente ai brani di apertura del concerto. Interstellar Overdrive, Astronomy Domine e Lucifer Sam, dopo i quali, storditi da tanta bellezza e inceneriti dall’energia promanata, ci guardiamo, e senza proferire parola alcuna, realizziamo immediatamente cosa stiamo assistendo quella sera al Teatro degli Arcimboldi di Milano: siamo in una capsula del tempo appena arrivata ai confini del regno floydiano, e spenti i motori, osserviamo lo spazio intergalattico fatto di ammassi gassosi, pulsar e nane bianche di cui non riusciamo a parole a descrivere la bellezza.

Abbiamo così modo, pezzo dopo pezzo, di rivivere gli accadimenti della Londra dei primi Pink Floyd e cioè quell’energia esplosiva del più vivo laboratorio di suoni, tendenze e atteggiamenti, avente le sembianze di un mostro sonoro capace di ipnotizzare le masse.
Ed è lì che, profondamente, diventiamo coscienti del fatto che le emozioni sono così forti che la stesura dei pentagrammi diventa luogo di scontro ed incontro di ciò che pervade l’io in quel momento, confermando quanto l’arte dei Pink Floyd nasca così come un accadimento che fin dal primo momento si pone su un alto livello di qualità musicale.

Dopo l’esecuzione di brani cult quali Fearless, Obscured by Clouds, Arnold Layne e One Of These Days in un incedere che toglie il respiro, il concerto volge al termine, e solo dopo essere riemersi dalle profondità oniriche floydiane ci sembra di intravedere tra luci e sbuffi magmatici un volto conosciuto avente le sembianze di Syd.