The Endless River

Ebbene sì. Perversa ispirazione mi colse un giorno a descrivere cosa mi suscita questo album, per lo più non amato dai fan. Ma spero che la mia interpretazione possa gettare un po’ di luce alternativa su questo lavoro, almeno per quanto mi riguarda. Almeno sulla base di ciò che credo di pensare e sentire quando lo ascolto.

The Endless River è, a guardare la mera cronologia, l’ultimo album dei Pink Floyd. L’album di commiato, del “a mai più rivederci”. Diciamocelo (anche se il solo dirlo ci graffia l’anima di amatori dei Floyd): è l’album dell’addio.

E io dirò di più. E’ l’album della dipartita, della morte. Anzi dei morti. Attenzione: il riferimento all’elegia post-mortem per Rick è ovvio e scontato ed è stato presentato e dibattuto dai più. E devo dire che, sinceramente, non mi convince nemmeno tanto – al di là del primo acchito sentimental-nostalgico. Esso, secondo me, è solo una superficiale e per lo più fuorviante scalfittura dell’interpretazione essenziale di questo lavoro.

L’essere l’album dei morti è una connotazione storica, nel senso pieno di questo termine. E’ una connotazione che la storia, appunto, rivelerà solo a tempo debito, al tempo in cui tutti i protagonisti saranno, appunto, trapassati. Immaginiamo un futuro (più o meno relativamente lontano, non importa) in cui per l’abitante medio dell’orbe terraqueo il nome Pink Floyd possa semplicemente ricordare una vaga essenza del passato, evocata forse da qualche documentario in TV, da qualche vecchia clip, o da qualche passaggio su Radio Nostalgia (in streaming per carità!!). Un tempo in cui nessun protagonista possa più rivitalizzarne la musica e ricordarne le gesta. Insomma un tempo proiettato al limite, o forse oltre il limite, del nostro immaginario floydiano.

Ebbene, immaginiamo di interloquire con questo uomo del futuro volendo instradarlo nella conoscenza dei Floyd. Cosa gli diremmo di ascoltare? Sento già le vostre risposte: “The Dark Side of The Moon“, no “The Piper, bisogna cominciare dall’inizio!”. “Meglio Animals, con quella sua carica dissacratoria e iconoclasta!”. “Ma siete tutti matti? Bisogna cominciare da The Wall“.

No. Niente di tutto ciò.

Bisogna cominciare dalla fine … o da quella che, superficialmente, si suppone tale. Per quello che sto per scrivere sono contento, da amministratore tecnico del sito, di aver disabilitato i commenti ai post perché dovrei altrimenti mettere a seria prova la mia tenuta psicologica “anti-hater”.

The Endless River è l’inizio. E’ l’inizio che parte dalla morte. Dalla dissoluzione dei contesti interpretativi immediati, dalla dissoluzione della memoria diretta dell’ascolto dei protagonisti e della loro musica.

The Endless River è il portale. Il portale di accesso (postumo) al mondo Floydiano.

E dal momento che la morte è l’atto finale, l’inizio, vale a dire ciò si incontra appena al di là della soglia del portale, non può che essere ciò che è alla fine: Louder Than Words. Questo pezzo è ciò che il nostro ignaro e curioso discendente ascolterà per primo. Immaginiamo lo scenario: l’esperienza di archeo-conoscenza dei Floyd inizia con la testimonianza (postuma) dei protagonisti che in sostanza rileggono, recitandolo, il loro lascito: nonostante ciò che ci ha caratterizzato come imperfetti esseri umani, ciò che è importante è ciò che ci ha reso immortali nelle nostre azioni e nel modo di stare insieme. La nostra musica. L’arrangiamento del brano è sontuoso, sovraccarico, cristallino ma allo stesso tempo totalmente freddo. L’assolo finale, tra i più ispirati di David, è una tenda che si apparta e che fa spalancare i nostri occhi verso l’infinito.

E così, a ritroso, ripercorriamo la strada che conduce al portale, iniziando con brani che risuonano con maggiore affinità agli ultimi lavori dei Floyd (Surfacing, Calling, Talkin’ Hawkin’) e proseguendo in un percorso di astrazione verso sonorità più fondamentali (Allons-y, Anisina) ancestrali (Autumn ’68), tribali (Skin, Sum), quintessenziali (It’s What We Do).

Ogni brano va visto non come un sunto a posteriori di esperienze ed espressività passate, ma come un preludio, un’impostazione, una chiave di accesso, ridotta all’osso, a ciò che è avvenuto prima storicamente, ma dopo nell’esplorazione postuma.

L’ultimo ascolto (Things Left Unsaid) è il rito di passaggio finale, che sposta l’itinerante ascoltatore dal mausoleo Floydiano rappresentato da The Endless River alle stanze museali dove la creatività del passato ha generato i loro capolavori immortali. La barca ha superato il fiume carontico a ritroso (è questa la vera destinazione del criptico personaggio della copertina) e il suo marinaio è pronto a imbarcarsi nuovamente per viaggi fantastici, alla scoperta infinita dell’universo Floydiano.

Questo è, a mio modesto parere, il senso di questo album.