Meddle

L’album Meddle è uscito nell’anno in cui sono nato. Mi viene un leggero brividino a pensare che mentre mamma – lunga coda castana distrattamente legata – accudiva quello scricciolo lattiginoso di 3 mesi in un angusto appartamento della periferia torinese, seduta sul divano color marroncino in finta pelle, c’erano i Floyd che pubblicavano uno degli album cardine della loro carriera, freschi dell’esperienza pompeiana. Meddle è considerato da tutta la critica l’inizio dei Floyd “mainstream”, quelli che negli anni ’70 hanno inventato un nuovo modo di comunicare con la musica, dopo aver superato e sepolto (per poi renderla a più riprese rediviva) l’esperienza Barrettiana. Okay, ma questo lo potete leggere già altrove …

La mia domanda di partenza è: da dove nasce Meddle? Ebbene, secondo me esso nasce un anno prima con Atom Heart Mother e precisamente dalle ceneri incandescenti di Alan’s Psychedelic Breakfast.

Alan’s rappresenta per l’ascoltatore floydiano medio un esperimento misterioso. Delicato sì, ascoltabile, ma decisamente interrogativo e auto-referenziale. Che bisogno c’era di Alan’s? Ascoltiamolo un attimo.

Arrivati in fondo? Bene. Qual è la mia sensazione? Di un ciclo che si chiude inesorabilmente accartocciandosi su se stesso su effetti sonori, melodie e armonie che si svuotano lentamente fino ad un autoreferenzialità malcelata e catatonica. Il finale mastodontico e celestiale straripante di tessiture Hammond e di tastiere che si avvicendano è una scalata verso il cielo. Ma l’inaspettata riproposizione dei rumori della cucina di Alan improvvisamente annullano tutto. Il rumore dell’acqua che scorre nello scarico richiama il portar via tutto, il buttar via l’effimero incanto della musica Floydiana di quel tempo. Che stava capitando ai Floyd?

Semplice: la fine e l’inizio. Come in un ciclo infinito i Pink Floyd iniziano e finiscono continuamente e a molteplici livelli, rappresentando – senza bisogno di dirlo esplicitamente – l’essenza stessa della musica Progressive. Passiamo ora al cuore di questo ragionamento: Meddle (se siete arrivati fin qui siete bravi e soprattutto non vi siete fatti traviare dallo screenshot di Lulubelle III pensando “quanto è ignorante l’autore del post che confonde Meddle con Atom Heart Mother…”).

L’inizio di Meddle è unico. Non è stato mai proposto dai Floyd fino ad allora un incipit del genere. Un turbinio ventoso sembra uscire fuori dai meandri dell’inferno. Cosa è successo alle bucoliche atmosfere di Atom? Dov’è Alan? Sta correndo rincorso da un mostro ululante desideroso di squartamenti e macellazioni sanguinolente. La chitarra di David è la voce del mostro e le martellate di Hammond sono un chiaro richiamo ad improvvisi attacchi di crepacuore. Ecco una caverna … Alan ci si infila quasi come un Homo Erectus di un milione di anni prima si sarebbe arrampicato su un albero per fuggire da infidi predatori.

E trova la morte…ehm fatto a pezzettini ovviamente (era stato anche avvertito). Il ritmo incalzante che si scatena al minuto 3:43 circa di One of These Days è la registrazione delle azzannate dilanianti del mostro sul corpo di Alan, il quale rappresenta tutto ciò che i Floyd sono stati fino a quel momento. Il brano finisce di colpo e il Mister Hyde con la lunga barba intrisa di sangue si ritrasforma in un apparentemente tranquillo luminare della musica.

Ma qualcosa è cambiato per sempre.

I brani che seguono sembrano catapultati da un passato veramente prossimo, simulacri degli scanzonati pezzi di Syd. Ma a ben sentire di Syd non è rimasta più traccia. E’ morto con Alan, divorato dalla nascente mania dei Floyd di rivolgersi all’ascoltatore non più con le tessiture psichedeliche di fine anni ’60 ma con gli indelebili ed eterni messaggi fatti di inscindibile alchimia tra parole e musica, che avrebbero portato loro stessi all’autodistruzione in un percorso di metamorfosi e di rinascita senza fine.

A Pillow Of Winds sono proprio io nel 1971. Un pupetto rosa e paffutello che non smetteresti mai di ascoltare e guardare (ehm sì, sono modesto …). Il pezzo cela nella sua tranquilla culla di arpeggi un progressivo scavare nei meandri dell’ascoltatore che per la prima volta nel catalogo floydiano comincia a guardare se stesso più che colorate tessiture di suoni impersonali.

Affinano la tecnica i Floyd con i successivi due pezzi (Fearless e San Tropez) che sono due vere e proprie hit pop-rock, almeno nelle intenzioni. Prorompenti arrangiamenti acustici rendono bene la “maestria dell’essenziale” che ha caratterizzato i Floyd sin dalla nascita. L’ascoltatore del 1971 comincia a pensare che i Floyd si avviano verso l’inevitabile scollinamento di una ex band di rock psichedelico che, abbandonando i primi vagiti creativi, finisce per creare pezzi ovvi e per nulla originali. Addirittura, San Tropez è costruita su un giro di accordi jazz che lasciano poco all’immaginazione e all’imprevisto delle fughe controintuitive a cui Syd ci aveva abituato.

Tutto sbagliato.

Ascoltatore del 1971, hai sbagliato tutto. I Floyd di San Tropez stano semplicemente dimostrando di avere ormai una tecnica esecutiva e compositiva allo stato dell’arte. Solido contrappunto di batteria, fill di pianoforte impeccabili ed essenziali, rigature di chitarra jazz perfette e ritmica di basso impossibile da ottimizzare. L’assolo di piano, poi, è semplicemente celestiale. San Tropez è quello che i Floyd sarebbero facilmente potuti diventare dal 1971 in avanti.

Ed ecco che improvvisamente Seamus, con un’ironia spiazzante e devastante rappresenta la presa in giro assoluta dei Floyd verso la versione di loro stessi nella sliding door del 1971. Un gruppo di suonatori da bar western che si diletta – affogando progressivamente in vasche d’oro e pietre preziose – a riproporre riff noiosi in salse bizzarre, inventandosi di tutto pur di sorprendere i loro fan e convincerli a comprare “the next record”.

Ma al primo accenno di noia … le prime note di Echoes mettono definitivamente le cose in chiaro. E’ un risveglio improvviso quello che si prova – impastati nel sopore di Seamus – quando le note appuntite del piano di Rick penetrano l’apparato uditivo per giungere alla corteccia cerebrale dopo aver letteralmente sfondato tutti gli strati della cognizione. Sono i Floyd che gettano la maschera e si spogliano delle meste vesti di plagiate creature semivive che li avevano avvolti fino a quel momento per rinascere in un fulgore inaspettato. E improvvisamente diventa tutto chiaro.

All’ennesimo ascolto di Echoes, nella tipica carriera del floydiano di professione – categoria cui mi fregio di appartenere, la sensazione dominante è quella della commozione. E’ il cuore che viene stretto in una morsa incoercibile appena le prime armonizzazioni strumentali tra David e Rick entrano a formare la tessitura del brano. La progressione melodica del piano di Rick strizza ogni goccia dall’anima ascoltante prima del trionfo vocale dei due sodali. E per la prima volta in Meddle è quasi impossibile non porre estrema attenzione al testo. Le liriche di Echoes sono rivolte all’ascoltatore e raccontano il tema centrale della carriera dei Pink Floyd: la comunicazione, l’empatia, la visione del futuro. La parte successiva vede David intarsiare un assolo potente e liquido allo stesso tempo in un crescendo inesorabile verso il groove che caratterizza l’essenza del brano. Indimenticabile la versione live di Remember That Night di questa parte! Ascoltiamola.

La parte tra il minuto 12:00 e 15:30 di questa versione mi porta letteralmente in estasi!

Tutti ricordiamo poi le oscillanti movenze di Roger a Pompeii in questa parte del pezzo mentre il plettro gratta, dalle spesse corde del basso, consistenti strati di metallo e Rick fa da contraltare alle zappate di Roger con un’aggressività indimenticabile sull’Hammond, performance che da sola rende merito a uno dei grandi delle tastiere rock del XX secolo.

Si fa appena in tempo ad abituarsi quando dalla caverna riappare il fantasma di Alan:

<< siete sicuri di voler percorrere questa strada, Floyd? Non è forse meglio sedersi sugli allori di una facile carriera da divi pop-rock pasciuti e riveriti da frotte di fans e di professionisti della musica propensi ad affumicarvi con i loro sigari in cambio di un’effimera illusione di eternità? >>

La tentazione è tanta e irriverente ma viene presto fugata. Le atmosfere cupe della caverna sono ricacciate indietro per sempre e il cocoon floydiano lascia spazio alla nascita definitiva.

Le armonie di Rick al Farfisa richiamano all’appello a poco a poco i contributi di David, Roger e Nick nella fusione finale. La missione è ormai chiara. Come rintocchi di campane a festa gli echi della chitarra di David sono fiori d’arancio che inebriano l’aria. La svolta finale, che richiama il tema del brano, è un chiaro messaggio di inizio della nuova era Floydiana. Quanto abissalmente diverso, e più maturo, è il gruppo che ha appena concepito e portato alla nascita Echoes rispetto ai vacui rumori della cucina di Alan o alla zompettante bicicletta di Syd?

Quanto più vicino a noi si trovano, ora, le loro anime?