Wet Dream – Il muro di Rick

Quando nell’estate del 2023 è stata annunciata la pubblicazione della versione remixata di Wet Dream ho pensato che era una dannatissima buona idea. Conosco il disco da decenni e l’avevo già ascoltato più volte apprezzandolo sempre moltissimo e considerandolo un esempio cristallino di pynkfloydianità. Il fatto che qualcuno della caratura di Steven Wilson avesse deciso di dare il suo contributo a quest’opera quasi dimenticata dai più non poteva che portare bene.

Wet Dream è un disco caldo, estivo. Ma non nel senso consumistico che questi due termini evocano, vale a dire in accordo con i canoni della dozzinale produzione musicale odierna che sforna tormentoni estivi che valgono sì e no l’increspatura delle onde elettromagnetiche che li trasportano alle nostre sanguinanti orecchie di pendolari del traffico. Un caldo avvolgente, illuminante, fatto di tinte tenui stese ad acquerello su una tela morbida e fluttuante nella brezza tiepida del pomeriggio.

Ascoltando questo capolavoro, che trasuda arte floydiana da ogni campione, mi trovo trasportato con la mente alle mie estati d’infanzia e adolescenza, quando subito dopo la fine della scuola papà ci accompagnava nella terra natia calabrese per poi tornare nell’afosa Torino per qualche settimana, prima di tornare per le agognate vacanze lontano dalla fabbrica.

Lo ricordo ancora papà, di schiena, a guidare sull’autostrada del sole la nostra Fiat 127 turchese farfalla mentre, nel sedile posteriore, mi divertivo a contare le auto d’ogni colore quasi sperando che quell’universo in scatoletta non finisse entro le ore che ci separavano dalla meta ma continuasse indefinitamente. Per quel me bambino, il viaggio era molto più importante della meta perché significava ritorno nel luogo degli affetti più cari e delle immagini più piacevoli.

E di sfumature di celeste è fatto anche Wet Dream. Sfumature di cui è intriso tutto l’album, non solo la copertina, che risulta quindi una promessa del tutto mantenuta dell’esperienza che aspetta ogni suo ascoltatore.

I brani iniziali, Mediterranean C e Against The Odds, ci introducono immediatamente nell’atmosfera piena di luce solare che Rick ha voluto trasmetterci materializzandola con le sue soffici tessiture di tastiere e, allo stesso tempo, presentano immediatamente il tema lirico dell’album: l’incomunicabilità, l’acuirsi delle distanze personali, la mancanza di empatia.

Vi ricorda qualcosa? Tenetelo a mente.

Ripercorro tragitti familiari mentre ascolto il primo brano: la verdissima pergola del nonno che faceva filtrare i caldi raggi accendendosi di bianco e smeraldo, lo stretto corridoio grigio che la separava dal piccolo cortile ricavato rubando un po’ dell’argine della fiumana in secca, e dove una vecchia acacia, con la sua ombra, forniva riparo ad un’amaca di fortuna costruita accanto ad un rudimentale banco da lavoro fatto di assi imbrunite da molte stagioni di pioggia, e gli altri frutti di quella piccola genialità di campagna che nel tempo aveva trasformato necessità e stenti in adeguatezza e dignità.

Il secondo pezzo risuona magicamente con la mia personale esperienza di ritorno in un luogo:

Each time we return to this crazy place

we break the promise made face to face.

Easy to take, easy to break

something here we don’t understand.

Sebbene la chiave di lettura superficiale sembri di natura diversa, molto probabilmente riferendosi ad una coppia che vive momenti di tensione e rottura, da un punto di vista più astratto questo incipit racconta una categoria di vissuti molto più ampia. Racconta il ritornare in quei piccoli e intimi mondi così spazio-temporalmente lontani, il cui rievocare porta ciascuno di noi a rompere le promesse fatte al nostro tempo presente, gli impegni a guardare al futuro che la società e la vita ci impone. Un’esperienza ineludibile che fa fallire ogni nostro tentativo di comprensione.

Ricordando che tutti i testi dell’album sono di Rick, osserviamo come egli imperni il messaggio iniziale di questo lavoro proprio sul concetto del ritorno, concetto che verrà ribadito a più riprese in tutte le liriche e che – vedremo – è anche un messaggio che egli sembrerà darsi molto chiaramente nella direzione del ritornare a sé stesso.

Cat Cruise è un pezzo strumentale che evoca istintivamente l’idea del compiersi di un atto considerabile “fuori posto” o “inusuale”, come appunto suggerito dal titolo. Allo stesso tempo, seguendo il filo conduttore della nostra interpretazione dell’opera, rappresenta l’allontanamento (crociera) come processo precursore del ritorno ovverosia come il vissuto delle persone dalle quali ci si allontana per (ri-)trovare se stessi. La struttura periodica del brano, incentrata su un arpeggio al pianoforte e puntellata dalla marmorea chitarra di Snowy White richiama proprio l’idea del viaggio / vagabondare aperto e senza percorsi predefiniti. Mentre ascolto Cat Cruise è facile per me immaginare, condizionato dalla mia visione personale, proprio la superficie marina leggermente increspata del mare delle mie origini al largo degli orizzonti visti per decenni, familiari eppur così inaccessibili, scoperti grazie all’immaginazione così meravigliosamente abilitata dalla musica.

L’inizio di Summer Elegy, in accordo di La maggiore al pianoforte sul quale si innesta una liquida e languida slide, comunica immediatamente e inequivocabilmente la sensazione di approdo. E’ un luogo calmo, assolato e iridescente quello nel quale ci sentiamo assecondati ascoltando questo pezzo. Mi piace pensare che le liriche siano questa volta quelle rivolte ad un sé stesso con il quale si riapre una comunicazione interrotta da tempo. Una presa di coscienza di una situazione che si protrae in maniera ormai insostenibile e che sta cancellando il nostro vero essere in favore del nulla. In questo senso il verso più significativo è secondo me il seguente:

One more sleepless night

and another wasted day.

This song has no end

too many words fill my mind.

Quante volte ci siamo trovati nel bel mezzo della nostra giornata a pensare di aver sprecato il nostro tempo, di aver non-vissuto, e a venir istantaneamente subissati da mille pensieri e rimorsi per il non-fatto o il non-detto? Questa rivelazione ha un potere dirompente nel percorso concettuale espresso da Rick in questo album poiché segna lo spartiacque tra la condizione di partenza – intrisa di deprimente routine e di incomunicabilità – e quella di arrivo nella quale la storia si risolverà.

La strofa finale di questo capolavoro merita di essere citata per intero:

Let’s drink to absent friends

How they cared, and all they shared

We took our life to the edge

They still try to understand

Time is running out

You’re going down

Come on, let’s go wherever they may be

Make a choice

Stay behind or follow me

La scollinata psicologica e introspettiva è ormai stata superata, la decisione è stata presa, il nuovo “io” è all’orizzonte, chiaro come non mai ritorna presso di noi a inebriarci della vita troppo a lungo tenuta soffocata dalle circostanze. L’immagine degli “absent friends” è molto evocativa: coloro che sono stati non solo amici assenti ma anche falsi amici sono ora disorientati dalla scelta personale di recuperare la propria esistenza e sono messi, retoricamente, alle strette: state indietro o seguitemi – non ho alcuna intenzione di cambiare idea.

C’è tantissimo della storia personale di Rick in questa prima metà di Wet Dream, ed è chiaro che tanto dell’espresso risuona con la sua esperienza nei Floyd di quegli anni, esperienza che sta trasformandosi in qualcosa di insostenibile. Queste liriche sono sorprendentemente antesignane di ciò che avverrà nei fatti da lì a poco, quando sarà proprio l’orgoglio di questo io ritrovato a far rifiutare categoricamente Rick di ritornare a lavorare a The Wall durante le vacanze in Grecia del 1979. Non sarebbe stato il capriccio di una star svogliata e depressa a dare il via alla propria caduta in disgrazia nel gruppo, ma l’affermarsi orgoglioso del proprio carattere e del pervicace attaccamento alla propria ritrovata natura di spirito libero.

Come spesso capita, tuttavia, ogni svolta significativa della nostra esistenza porta con sé ripensamenti, rimorsi, ansie e paure. E sono proprio questi sentimenti ad essere evocati, secondo il personalissimo filo emozionale che sto seguendo, dal successivo brano, Waves. Lo strumentale che ci fa attraversare il centro della narrativa del disco, è un’ossessiva ripetizione di una struttura armonica incentrata su due accordi sul quale si appoggia una frase musicale discendente che si ripete periodicamente, a realizzare una meravigliosa trasposizione sensoriale tra l’esperienza delle onde marine e la musica. Ad un livello interpretativo più astratto, questo ondeggiare rappresenta l’ossessiva riflessione che segue il cambiamento: avrò fatto la scelta giusta? Farò bene ad abbandonare il passato? Cosa mi riserverà il futuro?

Ancora una volta ritrovo la mia esperienza personale risuonare con il racconto di questa opera. Le mie lunghe estati soleggiate erano anche occasione di riflessione personale e di pianificazione, di meditazioni che ripercorrevano il vissuto della stagione passata preparandosi a quella che sarebbe arrivata. Le atmosfere rarefatte e morbide dei paesaggi marini delle mie origini hanno sempre fatto da sfondo alle mie rigenerazioni.

Anche quella raccontata da Holiday è una vita che ricomincia. Lasciata alle spalle la tribolazione del pensiero introspettivo e avendo ritrovato una luce ispiratrice per la propria vita è ora di cominciare a percorrere la strada che ci porta ad essa, indipendentemente dagli altri. Rick dichiara questi intenti con estrema chiarezza:

How was I to know quite so soon

That dreams can turn a life

Around it seems

There is no single way to live our days

Between these lines I know you see a man

Who’s not quite sure who he is

Or where he stands

[…]

Destiny, reality are just a dream

Raise the sails, the wind is free

Every day I become more confused

Which way to go, how to choose

Non è più una confusione mentale quella richiamata in questi versi, ma una confusione agli occhi degli altri, lo sfuocarsi della nostra immagine in lontananza mentre partiamo per la nostra meta ritrovata. Non ha più importanza dove si va e come si sceglie, ma è il fatto di viaggiare ad essere ormai per noi la sola cosa preponderante ed essenziale.

La parte finale del pezzo, un giro armonico maggiore che accompagna gli esortanti versi che si ripetono quasi all’infinito, rappresenta con estremo realismo questo allontanarsi agli occhi degli altri, che è però un ritorno alla nostra vera essenza se visto attraverso la lente dei nostri sentimenti:

Sail on

There’s no other way I’d rather be

E’ pura maestria espressiva quella che porta Rick a intarsiare i successivi brani, che portano a compimento il viaggio interiore rappresentato da questo disco. La misteriosa Mad Yiannis Dance esprime a tinte vivide la sensazione di prendere il largo per la via del ritorno. Simmetrico contraltare a Cat Cruise, che invece rappresentava l’allontanarsi dal dolore di una vita persa, questo strumentale ci fa immaginare chiaramente orizzonti d’acque limpide e calme, promesse di ritrovata essenza e centralità personale. Drop In From The Top è un pezzo che esprime forza, quasi prepotenza, quella del nostro io interiore che si rifà strada per emergere rinato e corroborato dal viaggio introspettivo che sta volgendo al termine.

E veniamo a Pink’s Song, probabilmente il brano più intimista ed ermetico del disco e allo stesso tempo il più struggente. Tante le possibili interpretazioni delle liriche: il ricordo di Syd o molto più probabilmente di un’altra vecchia amicizia perduta, o forse – ed è questa l’interpretazione che personalmente trovo più accattivante – semplicemente la voce dei propri affetti ritrovati dopo il ritorno. Secondo quest’ultimo approccio, a proferire le parole di questo brano non è Rick o la sua trasposizione protagonista del concept narrativo, ma gli amici ritrovati, che ci immaginiamo a parlare di lui e a salutare il suo riapparire dopo tante tribolazioni con i più semplici e sinceri ricordi:

Sadly, then, you lost yourself

So you had to leave

And I must go, be on my way

Let me go, I can not stay

Let me go, I must not stay

Attraverso questi passaggi, a riemergere assieme alle vecchie amicizie è uno dei sentimenti centrali della nostra esistenza: l’empatia.

Con Funky Deux, l’io ritrovato si apre al mondo e si mostra senza vergogna e senza maschere per quello che è: un complesso meccanismo dotato di infinite sfaccettature e contemporaneamente caratterizzato da una dissonanza centrale ed essenziale (ribadita in una coppia di accordi che compongono le due frasi principali dell’armonia), che non deve essere allontanata o alienata ma accettata per quello che è: l’espressione dell’unicità di noi stessi.

Questi importanti e profondi contenuti sono stati scritti da Rick nel 1978, in una fase cruciale ed epocale dei Pink Floyd, al crocevia tra la gloria apicale dei precedenti tre dischi e il declino. Ad un approccio superficiale questo disco potrebbe essere visto come il canto di un’anima inerte e incapace di collaborare alla grande impresa di un gruppo che è ormai un mostro sacro del rock, l’espressione di un uomo preso a giocherellare con incomprensibili e probabilmente insignificanti problemi esistenziali. Ad un ascolto più profondo, esso è invece la rappresentazione vivida della forza più importante, quella capace di farci ritrovare noi stessi sepolti, di farci ritornare alla nostra vita.

Se accostiamo – con non poco coraggio lo ammetto – questo lavoro a The Wall alla luce della presente disamina, non possiamo che accorgerci – se siamo davvero sinceri con noi stessi – che al di là di aspetti meramente formali inerenti la scelta dei mezzi espressivi (il simbolismo e la teatralità estremi anziché l’essenzialismo e l’introspettività) o delle tematiche conduttrici della narrativa, ci accorgiamo che essi ci raccontano lo stesso viaggio: la perdizione e il ritorno.

Tutto ciò a me basta per annoverare Wet Dream tra i capolavori e non fa che confermare quanto Rick fosse non solo un grandissimo strumentista ma anche un compositore e songwriter di tutto rispetto.

Mentre scrivo queste ultime linee finisco di ascoltarlo per l’ennesima volta e mi ritrovo immerso mente e corpo in uno degli scenari più dolci della mia infanzia, quando ogni settimana – puntualissimi – io e mamma chiamavamo papà al tramonto, durante il suo intermezzo torinese, dalla vecchia cabina telefonica dello spaccio del paese. Mi ricordo perfettamente quelle pareti beige bucherellate e quel telefono a muro nel quale mamma sussurrava le sue domande, attendeva le sempre brevi risposte fino a ricevere il saluto finale al quale sempre replicava “Anch’io!“. Ed io sempre, alla fine: “Quando ritorna papà?“. “Presto, Alberto, ritorna presto!“.

Ciao papà.