Wish You Were Here

I Pink Floyd, creando musica senza tempo, hanno sempre rappresentato un laboratorio aperto, coerente con il loro percorso musicale e con gli ascoltatori che fin dai primi anni hanno seguito il loro sviluppo artistico, costruendo una fucina di possibilità dove trovare idee e materiali sempre nuovi ad ogni ascolto.
Dall’analisi del percorso che li ha accompagnati ai vertici del successo, alla metà degli anni ’70, risulta altrettanto chiaro che il valore commerciale di un lavoro non può (più) essere la sola necessità ma alla base di esso prevalgono (ora) ragioni, sentimenti ed aspetti che si collocano su un piano prioritariamente diverso e ben più importante rispetto al mero valore economico.

Il protagonista indiscusso di questa svolta è senz’altro Roger, che negli anni che intarsiano i quattro capolavori cardine della band assurge a quella maturità artistico-lirica che lo pone a pieno titolo tra i maggiori poeti pop del XX secolo. I testi che emergono dalla penna di Roger a partire dal 1973 sono come le prime bolle di quella pentola in ebollizione che definirà – fino ai nostri giorni – la sua personalità a tutto tondo anche al di là e al di fuori della musica.

E’ da queste premesse che con l’uscita di Wish You Were Here nel 1975, continuando a proporre un’impressionante serie di capolavori e per niente intimiditi dal successo pregresso, il palcoscenico prismatico si spoglia, le luci multicolore diventano sbiadite e soffuse, i testi diventano più introspettivi, più intimi. Con le parole che non dicono mai abbastanza, ma che da sole sono in grado di evocare sciami di pensieri densissimi, i quattro lasciano il giusto spazio all’immaginazione onirica dell’ascoltatore, con il risultato finale che è sempre una meraviglia che trasale, trascende e travalica lo scopo iniziale e che avvicina di un altro frammento l’opera floydiana alla trans-storicità.

Anche con questo LP, che segue il capolavoro The Dark Side Of The Moon, i Pink Floyd conquistano le vette rarefatte dell’arte concettuale con un vocabolario personale che li àncora al mondo, spazzando l’incubo della ripetizione, confermando come le loro musiche modifichino lo spazio fisico che le accoglie, proponendoci una rilettura sullo stato delle cose. Mentre il carico di suggestione che ne deriva diventa un elemento tangibile quanto le scritture pentagrammatiche da cui ha origine, si annulla anche qualsiasi margine di rischio: il disco rappresenta la quintessenza dei Pink Floyd.

Come nei lavori precedenti, anche questo ha il potere di attivare una narrazione senza bisogno di ricorrere a espedienti complessi. Per cui, proprio per la capacità di animare il potenziale di uno spazio musicale con pochi elementi chiari e lucidi e con la ricerca minuziosa di sonorità appaganti, i Pink Floyd dimostrano come sia possibile definire limiti e confini, ma anche come sia inevitabile la loro instabilità.

Gettando uno sguardo attento sulla condizione umana dolorosa del compagno Syd Barrett, l’LP trasuda grande rigore ed essenzialità, dove niente è di troppo, ma dove spesso nulla è come sembra.
Incontrovertibilmente Syd è sulla via della smaterializzazione, e l’intento dell’album è quello di riaddensarne il pensiero, il ricordo, la presenza. Dobbiamo dire che le musiche fanno percepire distintamente tale desiderio tramite la tristezza dell’assenza, visto che la presenza di Barrett si sta sostituendo con il vuoto di uno spirito incorporeo, allontanando per sempre quell’universo fantastico e irriverente racchiuso in Syd stesso.
La cruda sensazione di mancanza, affiorante negli animi, porta la band a percezioni alterate con visioni contornate da un rarefatto spaesamento e il dialogo che ne nasce crea combinazioni sonore armoniose, che aggiungono nuovi significati alla lettura dei brani, disseminati di piccoli dettagli in una ricerca senza fine.
Dopo poco più una manciata di anni dalle loro prime fulminanti sperimentazioni sonore i Pink Floyd, con Wish You Were Here, fermano il tempo, stoppano gli ingranaggi della vita e fotografano il momento tramite musica e testi, saturando la superficie del pentagramma con colori primari di una bellezza travolgente e con visioni emblematiche appartenenti alla narrazione più intima della band. Il tutto continuando ad utilizzare il suono come elemento fondamentale, dove non viene messo in dubbio la relazione della band con il mondo reale, perché fare musica, essenzialmente, significa esprimere uno sguardo, un pensiero sul mondo circostante.

I paesaggi interiori magistralmente impressi sulle partiture e che scaturiscono dai solchi del vinile, altro non sono che la proiezione di quel sentimento che la band si portava dentro da almeno un quinquennio, e cioè un misto di inquietudine mescolata a momenti di intensa felicità e di frustrante disperazione.
In definitiva i Pink Floyd con questo lavoro invocano una liberazione dei propri sensi e ad un rapporto più armonico e franco tra di loro e la personale memoria; in tal modo ne nascono brani di musica e testi dall’effetto drammatico, capaci di incarnare il sentimento dell’atmosfera atemporale dei loro brani, a descrivere ed avvertire come i loro lavori musicali trattino aspetti di portata universale.

Con grande efficacia e con brani di imponente bellezza, il disco ben rappresenta il tema e l’atmosfera centrale del lavoro, proiettandoci nella netta sensazione di conservare la memoria personale. La tenerezza che si prova per le musiche si mescola allo struggimento, ad una sensazione di perdita e di sparizione imminente, e l’iconica copertina dei due uomini che si stringono la mano, acutizzando l’assenza di empatia e di coinvolgimento emotivo tra due esseri umani troppo distanti l’uno dall’altro, ha il potere di attivare una narrazione, senza bisogno di ricorrere a espedienti complessi o troppo espliciti.

Tra memoria personale e collettiva, l’LP apre con quel senso di sospensione temporale che profonde dall’intro di tastiera di Shine On You Crazy Diamond, brano che con le sue prime cinque parti ci delizia per i primi 13 minuti con un intreccio di immagini e suggestioni tratte da diversi sentimenti, con valori introspettivi che i Pink Floyd rappresentano attraverso un magma compositivo fatto di stratificazioni e sottrazioni, di frammenti e significati parzialmente celati, a delineare l’importanza che Syd ha avuto ed avrà in tutto il percorso della band.
Qui la musica parla distintamente di riflessi, stanze e pareti disadorne e silenziose, attraversate da una luce capace di lambire le cose, sfocandole, dissolvendole, sfrangiandone i contorni, per poi rivederle come apparizioni e presenze immateriali, mentre il formalismo e le superfici turbolente sono indubbiamente accantonate, con sonorità che assumono declinazioni intime, misteriose, mentali.

Succede così che il cortocircuito visivo provocato dalla superficie del diamante su cui si riflette deformata l’immagine dei quattro Floyd, è il cuore dell’album, che dribbla con eleganza le nitide tematiche umane del ’73 per immergersi in opere iconiche come Shine On You Crazy Diamond e Wish You Were Here, sfuocando volutamente le immagini, trovando una nuova alchimia del confine tra sentimento e musica.

L’album si snoda attraverso una ben studiata articolazione di brani in enigmatico dialogo; capita allora che Shine On You Crazy Diamond con i suoi due momenti, parte (I-V) e parte (VI-IX), funzioni da fondale per gli altri tre brani di forte impatto mentale.
Shine, attraverso la chitarra liquida di David, sembra sospesa nel vuoto fluttuando su di noi mentre Welcome To The Machine è impregnata di sonorità fangose sovrastate da cieli di carta vetrata e nubi metalliche. Con un’apertura che simula la folla acclamante la star di turno, ci porta alla fine verso un senso di straniamento come se dell’artista, una volta finita l’esibizione, non interessasse a nessuno del suo essere uomo gravato da un bagaglio di debolezze e sentimenti; ad un ascolto attento alcune sonorità richiamano una figura umana immersa tra rocce, montagne desolate e atmosfere inquietanti come semplice metafora esistenziale di un uomo perso in scenari metafisici, desideroso di un abbraccio mentre è posto sull’orlo di un dirupo rappresentato dal successo. In questo le linee di synth di Wright hanno lo stesso effetto di un vortice d’acqua che ci cattura e ci porta giù verso mondi sospesi, reconditi, inesplorati.

Welcome to the Machine, come anche Have A Cigar, sono pezzi dai titoli espliciti, dagli effetti intensamente teatrali ed alquanto intransigenti  nonché brani centrali aventi una chiara forma di critica che ben documentano una ricerca refrattaria ai tentativi di classificazione.

In particolare in Have A Cigar, come descritto in un post dedicato al brano, la band accusa l’industria discografica circa la produttività a tutti i costi, dove la produzione in serie di successi musicali, prefabbricati e premasticati dalla società dei consumi, spinge gli artisti verso il raggelante baratro dell’apatia.
Forse la ricerca di una durevole e bulimica felicità artistica ha sfibrato la band lasciandosi sfuggire di vista qualcosa di importante; questo sentimento è ben descritto verso la fine del pezzo quando si avverte, distintamente, come il brano venga fagocitato da una radio, rientrandoci dalle casse acustiche, quasi a ricercare quell’intimità persa a causa del successo planetario, sfumando così verso la dolce Wish You Were Here, rifuggendo dai clamori dello star system ed amplificando il senso della sfocatura indotta, trasformando il soggetto in una visione casuale e riducendo cosi l’album ad una vera e propria indagine ai margini dell’astrazione.

E così succede che i Floyd si trovino isolati dal loro naturale contesto, quasi come fossero inquadrati frontalmente e collocati su uno sfondo neutro, diventando pure forme in un lavoro dal sapore dolce-amaro, delle vere e proprie identità frammentate, memorie della lezione del tempo passato, mentre le scene indotte dalle sonorità fluide, conducono a concentrare l’attenzione di noi ascoltatori sul significato che Syd ebbe nella band, vero e proprio specchio dell’accettazione della tragedia della vita, e la band, con questo gioiello di album, ha l’arduo compito di prosciugare la coscienza da quel senso di colpa, cercando di riannodare, brano dopo brano, situazioni irrisolte, nodi della coscienza.

È evidente come, dopo aver girato lo specchio verso di noi con The Dark Side Of The Moon con le sue tematiche incentrate sull’uomo, la band lo volga ora verso se stessa ad indurre una presa di coscienza lontana dai clamori dello show business per l’intimo chiedersi “cosa siamo diventati?”. Ciò dà l’impressione a noi ascoltatori di entrare in uno spazio intimo e segreto, non seguendo una traiettoria metodologica uniforme, perché in definitiva descrive una lotta di sentimenti, cercando di venire a patti con la natura umana frammentata, contraddittoria e definisce una vista panoramica dove è ancora l’uomo a dominare la scena, strumento di risonanza di temi universali come sofferenza e vulnerabilità, costringendoci a sentirci noi stessi custodi della fragilità dell’essere umano.

Con l’iconica Wish You Were Here, manifesto della devastante presenza dell’assenza, i cieli e le architetture indotte dalle note musicali si riflettono dentro la nostra anima, pervasa da grandi specchi d’acqua mossi da una scrittura musicale virtuosa eppure semplice, dalle radici possentemente concettuali, quasi un ristoro all’immensa fatica di interiorizzare l’assenza, la mancanza, il vuoto.
Le note si frammentato e si moltiplicano, gli accordi si solidificano fino all’essenziale, purificati dagli elementi che possono distrarre, dando un senso organizzato dei pensieri, amplificando a dismisura la sensazione malinconica ed intima. La linea armonica è essenziale, senza variazioni o cambi, senza cromaticità a sorpresa. E’ un puro e semplice accompagnamento al messaggio ma non privo di quell’originale vibrazione che lo rende lontano da una ballad dozzinale e più vicino ad un’elegia classica di suoni. Ancora una volta i sintetizzatori di Rick entrano al momento giusto vaporizzando le atmosfere e lanciandoci in un empireo di riflessi bluastri così lontani dalla plasticità melmosa della terra (esemplificata dai due brani precedenti) e più vicini alla pura astrazione.


Risulta così che i Floyd rendano tangibile quel sentimento di solitudine grazie alla musica evocativa, quasi inafferrabile e quindi dedita a molteplici ascolti, evidenziando la carica drammatica dell’album con una dimensione personale assolutamente prevalente, proiettando noi inermi ascoltatori nuovamente sull’orlo di un evento.

Avviandoci alla conclusione di questa analisi, possiamo affermare con sicurezza che se la sorgente di luce nel ’73 era sufficientemente alta in cielo da impattare sul prisma e scomporsi, nel ’75 quella stessa sorgente di luce è bassa sull’orizzonte tanto da colorare di rosso il cielo, in un crepuscolo cremisi indotto dagli stati d’animo dei quattro componenti della band sull’orlo di un quasi tramonto umorale. Allo stesso tempo, ci accorgiamo come le parole, soffocate dal sentimento della malinconia, abbiano trovato la musica come unica via d’espressione. A riprova di ciò, nella lunga suite finale di questo capolavoro, le tastiere di Rick descrivono i quattro Floyd di spalle, in una nebbia artificiale, immersi in un’aurea creata dal sole, ma le cui ombre proiettate a terra sono multicolori, spaesando ulteriormente noi ascoltatori, non consci che i 48 minuti di musica hanno trasformato la nostra stanza in un ambiente irreale.

Concludiamo suggerendo di ascoltare le versioni live dei brani di questo album che sono state riproposte negli anni dalla band o dai suoi componenti nei vari solo tour. Noterete come questi brani sono tra quelli maggiormente reinterpretati e variati quasi a voler ribadire come tra l’immenso panorama dell’eredità floydiana – ormai quasi staticizzato dall’ineffabile trascorrere del tempo e all’aumentare della distanza dagli atti creativi originari – la musica dei Floyd di quegli anni è e rimane materia vivente e testimoniante la loro insormontabile e poliedrica trascendenza.