The Dark Side Of The Moon

The Dark Side Of The Moon del 1973 è un album destinato a rivoluzionare il nostro approccio all’ascolto della musica, una pietra miliare, uno spartiacque tra il prima ed il dopo. E questo capita indipendentemente dal momento storico del primo ascolto, quanto piuttosto si forma e si dipana in maniera assolutamente intrecciata con lo stato intimo e personale del novello ascoltatore. Quasi come un ineluttabile appuntamento con l’immenso, qualunque anima innatamente floydiana sa che quell’appuntamento avverrà e lascerà in sé segni meravigliosamente indelebili.

L’album, dimostrando incontrovertibilmente il concetto chiave che la bellezza è sempre contemporanea, è fatto di sperimentazioni rigorose e composizioni limpide, aperto a forme libere, che si evolvono durante ripetuti ascolti trasformandosi in suoni quasi astratti, eterei, a formare un alfabeto personale, un vero e proprio codice comunicativo. Un codice di interpretazione universale dell’opera floydiana, da riprendere, conservare, approfondire e dal quale attingere gli elementi essenziali di interpretazione profonda della loro arte.

Confermando le scelte che lentamente ma inesorabilmente la band aveva cominciato ad intraprendere sin dal 1971 con Meddle, anche in questo LP l’approccio rimane visionario, e caratterizzato da un vocabolario lirico-sonoro autodefinito dagli stessi maestri. Esso si apre a nuove possibilità espressive, avvalendosi, tra l’altro, della squisitezza tecnica dovuta in parte all’uso del suono quadrifonico.
L’incanto sonoro indotto dai quattro musicisti porta ad un album estremamente denso ed incompatibile con un ascolto veloce e superficiale, e che andrebbe diluito nell’orizzonte degli eventi, per gustarne al meglio la linea espressiva e melodica. Non capita di rado agli ascoltatori più avvezzi infatti di soffermarsi in loop continuato su alcuni passaggi chiave, magari non quelli più ovvi e scontati, ma quelli più reconditi, quasi a cercare l’ennesimo segreto, l’ennesimo spunto nascosto di un’arte frattalmente indefinibile.

Le liriche dell’album, le prime scritte da capo a piedi da Roger, danno asilo ad una intima osservazione dell’uomo, con un focus alla sue fragilità, paure e speranze, mentre il loro punto di vista permette all’ascoltatore di apprezzare, paracadutandosi nei temi affrontati, la vivacità sonora che stride con le tematiche introspettive e personali dell’umana esistenza, connotandole con una sensazione quasi metafisica, lunare.
Quello che ci viene offerto è una via d’accesso all’arte floydiana più pura, dove i paesaggi sonori affiorano dall’inconscio e vogliono assorbire noi ascoltatori in questo capolavoro. Strato su strato, ascolto su ascolto, il fenomeno che emerge fa sembrare noi stessi al centro della scena e dimenticare i creatori / esecutori originali. Siamo noi che ci trasformiamo e cantiamo a squarciagola Time, che strizziamo l’anima producendo i mutevoli lamenti intrisi di macabri pensieri sulla fine di The Great Gig, che spilliamo colpo dopo colpo i sette quarti di Money, che ci inebriamo fino ad assurgere alle vette di incontrastabile classicità di Us and Them.

I brani si pongono come porte, vere e proprie soglie di ingresso al mondo interiore, contribuendo a generare il momento cardine della loro indagine: di fatto i Pink Floyd creano con quest’album un luogo esistenziale e girano lo specchio verso di noi, mettendo in comunicazione razionale ed irrazionale, in un cortocircuito dall’effetto dirompente.

Le tracce richiedono un ascolto attento e prolungato, doveroso atto di rispetto al lungo processo di post-produzione, alla precisione maniacale dei dettagli che mettono sotto la luce del sole quell’assenza totale di distorsione resa possibile dall’amalgama creata dai quattro componenti della band, che quasi come generatrice di una singolarità artistico-culturale portatrice di un transitorio storico inattenuabile, non sarà mai più così “gruppo” da qui a venire.

La visione di insieme, ardua ai primi ascolti ma inesorabile nello sviluppo interpretativo dell’ascoltatore passionale, risulta spiazzante, macroscopicamente microscopica, rendendo una rappresentazione cristallizzata e nitida della realtà umana, sezionata fino nell’intimo inconfessabile della follia che si avvinghia a ciascuno di noi.

Il capolavoro prismatico è come una macchina del tempo, nata nel ’73 e perfettamente contemporanea, in grado di presentare i fondamentali dell’io, le domande sempre attuali a cui ad ogni epoca gli esseri umani hanno cercato di rispondere.

L’album è composto da un corpus di lavori che si spingono oltre i codici della critica, oltre la cornice del rassicurante, al di là del perimetro dell’ovvio, sfondando le tradizionali barriere musicali fin lì conosciute, ed un brano dopo l’altro gli strati, gli stadi e gli stati di coscienza si succedono lungo le distorsioni sonore surreali operate dai Floyd, una band in cui ogni componente sembra essere assorbito in una concettuale coscienza collettiva, tanto da chiedersi come sia stato possibile che una band così amorfa, senza un volto, possa aver emanato temi così prossimi a confessioni tanto angoscianti.

A testimoniare tutto ciò è l’inserimento delle voci della strada nei momenti topici dell’album, in particolare in Us and Them e alla fine dell’album stesso in scia a Eclipse. Esse sono un continuo richiamo al reale, al soggetto che ascolta e che proietta la propria esistenza sul tappeto lirico-sonoro.

Fu proprio Waters ad arruolare Alan Parson, l’allora ingegnere del suono, per una delle sue più ispirate idee fuori dagli schemi precostituiti: brevi interviste allo staff di studio e ad estranei ai temi dell’album, con domande del tipo:

Quando è stata l’ultima volta che sei stato violento?

Hai mai pensato che stai diventando pazzo?

Hai paura della morte?

I risultati delle interviste sono intrecciate nel brano di apertura Speak To Me, accordante il battito del cuore che, sommato al respiro di chi ascolta, genera un crescendo di impaziente attesa, accompagnato da urla lancinanti, voci frammentarie che fluttuano attraverso una nebbia dal rumore filtrato. E all’improvviso arriva lei, la musica, e noi, istantaneamente, superiamo la soglia che ci proietta sul lato oscuro della luna.
Questa breve e magica prefazione sonora si espande presto nella languida Breathe che con le sue sonorità dilatate e levigate sembra uscita dai vapori sulfurei di Echoes del ’71. La cristallina profondità del suono crea una terza dimensione sul pentagramma, dando maggiore spessore al nostro senso di percezione sonora, con convessità e concavità che avvertiamo distintamente, arrivando al confine della percezione, dove l’appagamento musicale è un’ipotesi di perfezione.
La parte vocale, intrisa di altrettante languide liriche, condensa il messaggio chiave dell’album in poche parole:

Run, rabbit run

Dig that hole, forget the sun

And when at last the work is done

Don’t sit down, it’s time to dig another one


confermando, con un livello di dettaglio sonoro incredibile, i Pink Floyd quali veri miniatori del suono.
La batteria di Nick, delicata, attira la nostra attenzione mentre David aiuta a farci vedere cose inimmaginabili ai più, aggiungendo ampi e dolci slide di chitarra, mentre Richard inserisce nell’inciso una coppia di accordi di sapore jazzistico, incastrati ad arte nelle essenziali note di basso di Roger. Questo brano, a nostro modo di vedere, consegna il messaggio centrale dell’album: la follia è uno stato necessario dell’animo umano senza il quale noi stessi ci riduciamo ad un ammasso di cellule ineluttabilmente destinato alla decomposizione:

For long you live and high you fly

but only if you ride the tide

balanced on the biggest wave

you race towards an early grave.

Un repentino cambio di marcia avviene con il brano a seguire, On The Run, una pulsante interpretazione ispirata alla paura di volare di Rick Wright, che rende solide le angosce umane con livide vedute interiori, spesso inquietanti, tracciate con linee di sinth liquide, impalpabili.
L’inserimento di suoni ambient quali passi frettolosi, annunci aeroportuali, rombi di aerei e risate isteriche aumenta la percezione dei paesaggi sonori che sfumano in larghe chiazze di colore musicale, facendo gocciolare a gravità invertita note musicali di qualità eccelsa.
On The Run, rendendo visibile l’invisibile, è un viaggio onirico tra le pieghe del nostro cervello, volto a insinuarci tra le sinapsi cerebrali alla ricerca di quei meccanismi incogniti e sconosciuti scatenanti la pazzia e le fobie più nascoste.
Di fronte alle loro musiche si ha quasi sempre l’impressione di finire dentro un sogno e questo brano, con i suoi quasi quattro minuti di visioni ipnotiche e di passaggi cinetici, assomiglia ad un magma di suoni che hanno una vita propria, con effetti stranianti, suoni circolari deformati in singolari ellissi.
I ritmi forsennati del brano spingono i sensi in un’altra dimensione, trasformando l’ascolto e creando un vero e proprio dialogo tra le menti, ad indurre un’assenza di riferimenti fissi e costringendoci a seguire il motivo ondivago della musica accelerato centrifugamente.

Orchestrando strumenti e suoni, i Pink Floyd danno vita a quella netta sensazione di perdita di terreno solido sotto i piedi, spalancando l’ingresso ad allusioni brillanti dell’immaginario, rotanti su infiniti assi di simmetria fatti di suoni allungati, modulati in frequenza, ampiezza e fase, a completare magistralmente l’atmosfera ipnotica che si conclude con una fragorosa esplosione liberatoria.

Il silenzio che ne consegue lascia spazio a Time, già oggetto di ampia trattazione in precedenza per la sua assoluta centralità nel percorso floydiano, brano incentrato sulle opportunità perse e sulle vite sprecate. Apre con sonorità di ingranaggi anamorfici ed illusivi, uno stonato groviglio cacofonico di rintocchi di orologi all’incontrario, accompagnato da note spiazzanti e surreali, guidate da un Mason che dietro alla batteria disegna un iconico intro floydiano. Queste, combinate a citazioni profonde, di inaspettata verità e saggezza, ma narrate con liriche di una semplicità disarmante, ci inchiodano senza permetterci di proferire parola alcuna.

Il brano è intriso di liriche solitarie e malinconiche, quasi come fossero pronunciate di spalle, mentre con un’esecuzione straniante, sostenuta da perizia tecnica e da un denso impianto strumentale, i Pink Floyd esplorano i confini dei sentimenti umani. Si viene invitati a tuffarsi nell’io più recondito, per far emergere una realtà che si dispiega oltre i solchi del vinile, che avvilluppa noi ascoltatori.

Il pezzo è noto per una chitarra riverberata di David e da un assolo dalle emozioni uniche, sostenuto da un coro di voci femminili caldo ed avvolgente, così piene di sentimento che aiutano ad aumentare il senso generale di elevazione umana.
Implorandoci di scrollarci di dosso i nostri paraocchi, i Pink Floyd coniano una strofa eterna, resa ancor più tale dallo splendido timbro vocale di Rick:

Every year is getting shorter never seem to find the time

plans that either come to naught or half a page of scribbled lines


confermando come Time sia l’acme della composizione floydiana.
La presenza del brano successivo, Breathe Reprise, naturalmente incluso in Time quasi come un suffisso, introduce una vera e propria pennellata di tonalità pastorale, immersa nella verde Inghilterra, con le sue confortanti superstizioni religiose circa la perdita di certezze in un’epoca di alienazione, di senso diffuso di immortalità spregiudicata.

L’allora lato A del vinile si chiudeva con il brano The Great Gig In The Sky, già analizzato in un post dedicato .
Il piano delizioso di Wright spande colori sonori caldi e terrosi accompagnando i gorgheggi di Clare Torry, ed affrontando un tema sempre incontrovertibilmente contemporaneo quale la morte che oscilla tra l’esserci e il non esserci, sospende il momento che decreta il suo sinistro giudizio e annuncia il suo lugubre presagio.
Nonostante l’assenza di testi, il brano è in grado di effettuare delle vere e proprie zoomate sull’uomo in un’analisi critica svolta da una posizione decentrata e perciò privilegiata, acuendo l’opera relazionale grazie a marcate percezioni sensoriali, elevando con la sua presenza l’album a oggetto di immaginazione preventiva capace di rivoluzionare la società.

In Money la descrizione degli effetti di massificazione economica, sono un attacco diretto e senza mezzi termini ai lussi della vita da ricchi (belle donne, pellicce, aerei privati) ed alla speculazione economica che ha azzerato la capacità di giudizio. Il brano ci consente di guardare le cose da un punto di vista sempre diverso, ci restituisce una rappresentazione sufficientemente caustica anche se apparentemente distaccata, e riesce a comunicare qualcosa circa la ferocia e la brutalità del presente, sincrono ed asincrono, senza sfruttare frasi già fatte. La tagliente essenzialità del Roger di questo periodo agisce come una sonda iniettata nell’animo dell’ascoltatore, intromettendo nel panorama della sua attenzione, elemento dopo elemento, i peccati laici che derivano dal dio denaro. Come squartando una bestia diabolica, il puzzo della corruzione, dell’effimero, dell’egoismo permea secondo dopo secondo la comfort zone di ascolto, trasformandola da una piacevole stanza d’hotel di lusso ad un antro tossico e maleodorante da cui fuggire.
Anche questo, come tutti quelli presenti nell’LP, è un brano che sedimenta nella nostra anima e si adatta alla nostra età, qualsiasi essa sia, accompagnandoci nel nostro percorso di vita, diventando un modello di orientamento, un punto di vista personale, un vero e proprio meccanismo per produrre riflessioni.

Con Us And Them, i Pink Floyd affrontano il tema dell’umana necessità di empatia, concentrando il loro sguardo sulle radici più introspettive del sentimento umano e dei complessi meccanismi psicologici.
La musica, scritta qualche anno prima da un immenso Rick, fiancheggia, sovrasta, irradia i testi profondi del brano, attingendo a tutti gli elementi di una immaginaria tavola periodica sonora.
Tutto è identificato in un ritmo ed in un movimento lento, come in un respiro limpido e sottile, senza suoni aspri e rugosità elettroniche. Il brano è levigato e tranquillo, ammorbidito ed interiorizzato, suggerito a bassa voce, anche quando i momenti si fanno più epici, e le liriche sono dettate con sicurezza, senza paure ed interruzioni. Capita così che la musica cristallizza un momento che non ha inizio né  fine ed il contatto con queste sonorità è un momento di privilegio, grazie anche al fatto che i Floyd hanno cercato di comporre brani e album al servizio di una visione non gerarchica tra band e pubblico ma instaurando un rapporto diretto con l’ascoltatore.
La fine del brano si raccorda magnificamente con il successivo strumentale di Any Colour You Like, fatto di colature di pura materia sonora, lasciate liberamente scorrere sul pentagramma, in diversi strati, che sembrano attingere ad un repertorio formale apparentemente infinito, lavorato su elementi attraversati da una componente eterea ed onirica, la cui modellazione germinante ha contribuito a renderlo un piccolo capolavoro.
La musica, colorata dalle calde linee sonore, sonda lo spazio e prende la forma di una totale esperienza immersiva, prevedendo l’inserimento di immagini cerebrali, dei veri e propri testacoda visivi, che conducono alla rivisitazione della musica, la quale viene assunta quale strumento capace di far concretizzare e dissolvere le emozioni in un viaggio interiore dal chiaro sapore lisergico.

Brain Damage ed il successivo Eclipse portano alla conclusione questo album tematico dalle forme di una lunga suite, e coincide con un crescente e fragoroso galoppo verso il traguardo. E’ quasi come essere al cospetto di un giudizio universale, in cui ogni singolo atto, pensiero, anelito vitale è azzerato di fronte all’ineluttabilità della morte morale dell’anima. Un mastodontico atto di accusa rivolto a un universo sottosopra, e che conclude con la frase ammonitrice:

And everything under the sun is in tune

But the sun is eclipsed by the moon

mentre in dissolvenza udiamo la sequenza finale di battiti cardiaci, che cortocircuitano la fine dell’LP con l’intro, a descrivere l’eterno ciclo della vita.

Bisogna alla fine arrendersi senza riserve all’album e accoglierlo fondamentalmente nella sua essenza, come costituito da creazioni liriche altamente poetiche e di valore universale e da musiche inarrivabili per composizione e produzione. Allo stesso tempo rappresenta di fatto l’irrinunciabile legame tra la band e noi ascoltatori, che, ponendoci perpendicolarmente all’LP, ne apprezziamo la magia al meglio solo dopo molteplici ascolti.
Certamente gli stimoli indotti nei 45 minuti di questo capolavoro sono anch’essi molteplici e, scampando all’assuefazione che altri lavori contemporanei inducono se riascoltati a più di 40 anni dall’uscita, esso è di sicuro capace di emozionarci ad ogni successivo ascolto con scorci di geometrie impossibili, suggerendo tutte le volte sonorità diverse da quella reale e impercettibilmente ma costantemente diverse dall’ascolto precedente.
Rammentiamo che il loro capolavoro prismatico nasce, non a caso, da quelle esperienze eterogenee live ante ’73, come un’attitudine, un modo di lavorare per ispirazioni oniriche, scrivendo i testi in maniera emozionalmente diretta ed in un linguaggio semplice.

La musica è plasmata a proprio piacimento mentre testi ed elementi sonori sono tutti tasselli che compongono i lati del prisma, arricchendo l’LP di superfici riflettenti che presentano colori musicali sgargianti, legati ad una vera e propria estetica dell’ornamento, utile a far luce sulla parte oscura di noi stessi, disegnando una traiettoria assolutamente originale, e facendo si che l’idea dello stress, della pazzia e della morte, nella caotica società contemporanea, siano tutti sentimenti messi a nudo nell’album che in un processo creativo unico, ha evidenziato il fragile ciclo della vita.

I Pink Floyd hanno esplorato il lato oscuro della luna, che c’è ma non si vede, come le nostre angosce e paure, nascoste ma presenti e durante l’ascolto di questo capolavoro, trasportati dell’immaginazione, raggiungiamo anche noi quello stesso lato e, storditi da tanta bellezza, ammirando la terra riusciamo solo a dire:

Theres no dark side of the moon really

Matter of fact it’s all dark

Per una completa esperienza immersiva consigliamo l’esecuzione live del ’94 dell’intero album all’Earls Court di Londra, di fronte a un pubblico attonito e distratto da nulla che non sia lo scopo per cui si è lì.