The Final Cut

Brano dell’omonimo album del ’83, The Final Cut è chiaramente una propaggine, un ritaglio del concept alla base di The Wall.

Roger ha ormai preso il controllo completo della band, tant’è che David e Nick sono completamente asserviti a Roger, mentre Rick è stato, in maniera imbarazzante, messo alla porta.

Il brano sembra fratello di Comfortably Numb, sia per struttura che per alcuni richiami melodici, ed i testi rivelano quanto per Waters l’introspezione sia il veicolo preferito con il quale creare atmosfere che tolgono il respiro. Il risultato è che la musica torna indietro rispetto ai meccanismi sonori eclatanti delle loro opere precedenti e si riduce sempre più ad uno stadio in cui l’intimità prende il sopravvento.
Ad esempio, la bellezza e l’espressività della chitarra di Gilmour, oltre al cantato, sono enormemente ridotti e, diamine, le atmosfere di Wright ci mancano tantissimo almeno quanto quell’assenza di tocchi sublimi di sinth, organo e piano sono equivalenti ad un corpo senz’anima.
Tutto parla di guerra, come l’intero album, e feroce è la critica mossa da Roger verso i pericoli derivanti dalle scelte politiche e la conseguenza perdita dei diritti democratici.

La canzone richiama continuamente la dimensione politica, sociale e psicologica del dramma della guerra ed il messaggio di Roger sembra essere: dimentica la mia storia, ricorda la storia.

Il cantato è esclusivamente di Waters e spesso è solo accompagnato dal piano di Kamen, a testimoniare quanto diversa e spiazzante sia la struttura del brano, rispetto a quanto si era abituati ad ascoltare dai Floyd.
La melodia, come si può distintamente sentire,  è orfana di quella musicalità floydiana, costituita dai quattro componenti e che ha reso gli album precedenti dei classici, e risulta esclusivamente trainata dalle paure ed angosce del compositore. La compagine acquisisce di diritto il nome di Roger Waters Band più che Pink Floyd. Al tempo di The Final Cut, Roger ha a disposizione ciò che resta dei Floyd e li usa in maniera sfacciata per costruirsi una rampa di lancio, una comfort zone per la crescita della propria autostima da cantautore indipendente. Crediti, ma anche debiti, che col tempo mostreranno i propri limiti, ma che contribuiscono a fare dell’album del 1983 – a suo modo – una pietra miliare, una testimonianza storica della dissoluzione della prima parte della loro carriera.

Le liriche del brano sono, ad ogni modo, dirette ed evocative:

And far from flying high in clear blue skies

I’m spiralling down to the hole in the ground where I hide

e solo Waters può condensare nei testi un così ampio spettro di significati e sensazioni, magistralmente annodati con le atmosfere musicali. Roger, ormai maturo poeta dei tempi moderni, ha intrapreso di fatto, con questo album, la sua strada di duraturo monitore dei tempi che ancora oggi – sebbene con più iati e riproposizioni/adattamenti che con lavori davvero originali – conserva.

La stratocaster di Gilmour, annichilita, trova nella canzone l’opportunità di un solo tiratissimo, a voler esprimere in una manciata di secondi tutta quella rabbia repressa per essere stato considerato nulla più che un comprimario.
Noi lo ascoltiamo con piacere e ci accorgiamo, quasi con rabbia, cosa sarebbe stata la canzone con tutte le quattro componenti della band ai loro posti.

Vi lasciamo con una provocazione per veri fan: provate ad ascoltare About Face, secondo lavoro solista di David del 1984 e pensate cosa i Floyd – in maniera assolutamente speculativa – sarebbero potuti essere al tempo del loro taglio finale. Ma si sa, non sempre due parti possono essere più grandi della loro somma.